Autore Topic: Articoli sulla ludologia e sul gioco dell'Università di Siena.  (Letto 7786 volte)

Segnalo, vista la tarda ora e l'insonnia dovuta a cena pesante, due link ad articoli estremante interessanti sul gioco e l'approccio semiotico, che credo possano risultare interessanti.
Regole &/vs Libertà
Giocatori bugiardi & interpreti sinceri
Ci sono altri articoli estramente interessanti, il fatto che non sia più aggiornato da tempo mi fa pensare che l'esperienza si sia conclusa, però mi pareva giusto segnalarli.
« Ultima modifica: 2010-02-02 11:40:11 da fenna »
Daniele "fenna" Fenaroli

Articoli sulla ludologia e sul gioco dell'Università di Siena.
« Risposta #1 il: 2010-02-02 11:43:27 »
Riporto di seguito una parte che mi ha particolarmente colpito del secondo articolo, che sicuramente risulterà, se non di più facile lettura, credo meno ostico, anche per la tendenza dell'autore a evitare riferimenti a teorie semiotiche senza citare le teorie stesse.
L'unico vero riferimento di cui si avrà bisogno è la definizione di play e game, che però mi pare ridondante riportare nel topic, quindi invito a leggerla nell'articolo.
Parte 1
Citazione
3.2. Lo strano caso del role-playing game
In Italiano hanno un nome abbastanza innocuo: si chiamano "giochi di ruolo". Ma è la designazione inglese che, ancora una volta, ne rivela la natura ambigua: role-playing games, cioè giochi che paiono, fin dal loro stesso nome, partecipare contemporaneamente all’universo del game e a quello del play, e fra essi restare sospesi. Né stupisce che l’ambiguità sia giocata sui sensi del verbo to play, che significa anche "recitare", dunque interpretare un ruolo; perché proprio l’interpretazione dei ruoli fantastici definiti nella situazione immaginaria caratterizza il play in quanto gioco.

Ma che cos’è un gioco di ruolo? E’ un gioco in cui i giocatori accettano di immaginare un’ambientazione fantastica, di impersonare uno o più personaggi che in tale ambientazione vivranno e agiranno, e infine di condividere questa creazione fantastica con gli altri partecipanti; in altre parole, è un gioco che tende a recuperare e a ripetere, in un contesto più stabile e ad uso di giocatori (anche) adulti, le condizioni e le dinamiche del play infantile. Come in quest’ultimo, infatti, assume centrale importanza la situazione immaginaria che si crea, e, come nel play, il gioco consiste nell’agire tale situazione coerentemente al ruolo assunto in essa; ed è analogo anche il problema organizzativo cui il gioco fa fronte, ovvero l’armonizzazione delle fantasie individuali, il mettersi d’accordo su come giocare tutti lo stesso gioco. Insomma, le coincidenze fra il gioco di ruolo "adulto" e il play dei bambini sono tante e tali da lasciare pochi dubbi: ciò cui il primo mira, più o meno consapevolmente, è la ripresa del secondo - in modi e forme naturalmente diverse.

E la prima differenza consiste nella proliferazione di regole che il gioco di ruolo immancabilmente conosce. Chiunque abbia anche solo assistito ad una seduta di un qualsiasi gioco di ruolo, foss’anche il più elementare, sarà rimasto stupito (e spesso intimorito) dai ponderosi manuali in cui vengono raccolte le regole del gioco. Di fronte a tali "breviari", anche il più consumato frequentatore del game resta sgomento: abituato com’è ai rigidi ma semplici regolamenti delle carte, degli scacchi, e persino dei più complessi giochi da tavolo, si domanda stupito quale diabolica intelligenza abbia mai partorito dei giochi così complessi da richiedere centinaia e centinaia di regole. Situazione che risulta ancor più sorprendente, quando si consideri che il gioco di ruolo mira invece a recuperare la stessa esperienza ludica caratteristica del play infantile, nel quale le regole sono così poche (e così poco importanti) da non essere neppure espresse a voce.

Vale la pena allora interrogarsi sulla funzione delle regole nel gioco di ruolo, in confronto a quella che esse svolgono nel play. Nei giochi fantastici dei bambini, le regole, come si è visto, discendono immediatamente dalla situazione immaginaria rappresentata: sono cioè regole di coerenza e adeguatezza al contesto fantastico che si sta immaginando, e il rispettarle costituisce parte integrante della finzione ludica; per questo non necessitano di essere espresse, e non partecipano direttamente alla definizione del gioco in quanto tale (al contrario di ciò che avviene nel game). Nel gioco di ruolo accade invece un fatto curioso: le regole, piuttosto che derivare dalla situazione immaginaria, hanno lo scopo di controllarla, di evitare che impazzisca, ovvero che si dissolva nell’arbitrio delle immaginazioni individuali. La fantasia e i suoi usi, che nel play rappresentavano la libertà creatrice del bambino e la liberazione dall’angoscia per il suo stato di oggettiva minorità, nel gioco di ruolo degli adulti sono ormai considerate delle "brutte bestie" (dei draghi?), dalle cui imprevedibili bizzarrie occorre tutelarsi.

Questo punto di vista "maturo" sulla fantasia è spesso esplicitamente presente nell’incipit di quegli stessi regolamenti di cui stiamo parlando. Ecco ad esempio ciò che si dice nella presentazione del gioco di ruolo più diffuso, Dungeons & Dragons : "Se avete mai giocato a guardie e ladri vi saranno senz’altro capitate delle situazioni in cui la guardia sostiene di aver colpito il ladro e quest’ultimo nega recisamente. Queste dispute sfociavano spesso nella fine del gioco, dato che non erano facilmente risolvibili, e si ritornava a casa alquanto arrabbiati. Nei giochi di ruolo come Dungeons & Dragons sono state stabilite delle regole per evitare queste controversie. Queste regole consentono di determinare se la guardia colpisce o manca il ladro dopo avergli sparato, o se un personaggio può effettuare certe azioni, come lanciare un incantesimo o forzare una serratura. Le regole aiutano a risolvere i problemi che inevitabilmente si pongono e rendono il gioco più divertente." Col che ne abbiamo a sufficienza per suggerire che i giochi di ruolo siano nati dalle esperienze infantili degli autori, e i regolamenti dai loro traumi.

Ciò che conta, comunque, è che l’ipertrofismo legislativo e la regolamentazione selvaggia costituiscono la risposta adulta (nel gioco, e forse anche al di fuori di esso) a dei problemi che anche i bambini hanno, ma che risolvono con strategie del tutto diverse. Anche stendendo un pietoso velo sugli sfortunati trascorsi ludici dei creatori di Dungeons & Dragons, è certo vero che la situazione immaginaria di cui il play vive deve fondarsi su un accordo comune, una base condivisa che, come si è già detto, garantisca di giocare tutti lo stesso gioco. Senonché questo obiettivo è raggiunto, fra i bambini, secondo l’antica e civilissima tecnica della concertazione silenziosa, ovvero un accordo che nasce dalla volontà reciproca di "venirsi incontro", e che sul piano individuale porta a strategie di tolleranza e mutuo adeguamento. Io accetto il tuo essere un magnifico leone senza metterlo in discussione, e al contempo tu non obbietti al mio essere un velocissimo ghepardo; poi ci mettiamo a correre qua e là, e, così come tu ti rassegni al fatto che io ti preceda sulla preda, io ti riconosco la tua autorità di re della savana, e spartisco con te il cibo; e via discorrendo (e giocando). Col che non voglio affatto dipingere un quadro idilliaco del play infantile, né sostenere che il litigio, l’incomprensione, e la fine del gioco non avvengano mai - al contrario. Ma vero è che, se pure la risposta dei bambini al problema della condivisione di una situazione immaginaria presenta dei rischi e delle difficoltà, essa offre anche alcuni notevoli vantaggi rispetto al "ricorso alla legge" tipico del gioco di ruolo: in particolare, la spontaneità e la facilità del gioco stesso.

Inoltre, l’uso di regole per garantire omogeneità alla situazione immaginaria (il termine tecnico, nel settore, è "giocabilità"), porta in realtà ad alcune distorsioni del gioco stesso. E’ proprio in questo che l’elemento di play del gioco di ruolo (di cui pure si insegue la traccia infantile) si mischia, si confonde e, direi, si inquina col game: nell’abbondanza di regole rigide, e ancor più nelle conseguenze che essa provoca. Riprendendo le relazioni di dominanza che abbiamo usato in precedenza (cfr. cap. 2.3.) per distinguere il play dal game, notiamo che nel caso del gioco di ruolo l’equilibrio fra la situazione immaginaria e le regole risulta precario, impreciso, difficile da stabilire. Infatti, se da un lato la situazione immaginaria è assolutamente centrale per lo svolgimento del gioco (che in essa procede, e a cui le azioni reali dei giocatori fanno costantemente riferimento), dall’altro anche le regole lo sono, poiché da esse sono definite le pratiche di gioco e persino gli esiti delle azioni sul piano fantastico. Nel gioco di ruolo, la frazione che usavamo per esprimere l’importanza relativa dei fattori in gioco impazzisce, prende a ruotare su se stessa, e di volta in volta l’uno o l’altro termine compare a numeratore - le regole, quando ad esse si fa ricorso per risolvere le azioni dei personaggi, o la situazione immaginaria, quando il gioco riprende la sua natura di play.

Si potrebbe però obiettare che questo è un problema della nostra classificazione teorica, non del gioco di ruolo: se gli strumenti che abbiamo sviluppato per distinguere il play dal game non funzionano rispetto a questi giochi, non è con essi che dobbiamo prendercela, quanto piuttosto con le carenze del nostro approccio. Effettivamente, non sono preoccupato dall’inapplicabilità della relazione di dominanza al gioco di ruolo - tanto più in quanto sono convinto che si tratti di un fenomeno che oscilla fra il game ed il play, e dunque la relazione non fa che descrivere tale dinamica. Piuttosto, vorrei suggerire una spiegazione alternativa (un ragionevole dubbio, diciamo) sul perché ci siano tutte queste regole all’interno dei giochi di ruolo.

Riprendiamo in considerazione le parole dei creatori di Dungeons & Dragons. Essi ci dicono (allo scopo di farcelo credere) che le regole servono ad evitare le "controversie", cioè a risolvere quelle situazioni in cui le opinioni dei giocatori rispetto alla medesima situazione fantastica potrebbero divergere: io dico che ti ho colpito e tu dici di no, oppure Tizio pretende di lanciare un incantesimo ma gli altri non sono convinti che possa farlo, né che Caio riesca davvero ad ammazzare il drago al primo colpo - e così via. Le regole provvedono quantificando, misurando, definendo ciò che si può e ciò che non si può fare, usando a tal fine procedure probabilistiche (ad esempio l’uso dei dadi): ne risulta un insieme di prescrizioni assai complesso, ma comunque ordinato e, nei limiti del possibile, preciso (difficilmente sarà invece esaustivo, giacché appare arduo, per le regole, star dietro alla fantasia). Le regole, insomma, servono a rendere "giocabile" da più persone contemporaneamente la situazione immaginaria.

Questo sarà anche vero - benché non mancherebbero soluzioni alternative al problema, come ben sanno i bambini. Mi pare però che ci sia qualcosa di più, qualcosa di cui comunque si avverte traccia nelle stesse parole di chi le regole nei giochi di ruolo le ha volute e pensate. Infatti, proprio gli autori di Dungeons & Dragons concludevano dicendo che le regole non solo "aiutano a risolvere i problemi che inevitabilmente si pongono", ma
Daniele "fenna" Fenaroli

Articoli sulla ludologia e sul gioco dell'Università di Siena.
« Risposta #2 il: 2010-02-02 11:43:51 »
Parte 2
Citazione
anche "rendono il gioco più divertente".

Un bambino difficilmente capirebbe il senso di questa affermazione. Non capirebbe, cioè, come tante regole possano rendere più divertente il suo play - e avrebbe ragione: le regole distruggerebbero il suo gioco, trasformandolo in qualcosa d’altro. Ma un giocatore di poker, al contrario, capisce benissimo come e perché le regole "rendono il gioco più divertente". E lo capisce perché qui si sta parlando del suo tipo di gioco, ovvero del game. Un game in cui è l’esistenza della regola a definire lo spazio di azione entro cui è possibile "cimentarsi" (dai cimenti cavallereschi, antica versione del gioco di abilità), ed è ancora la regola a garantire, per difetto, la licenza di agire senza troppe costrizioni morali, "per gioco" (cfr. cap. 2.5.). E’ la regola, allora, nel suo imporsi sulla rappresentazione di una situazione immaginaria, a "cucire" insieme la motivazione agonistica e la liceità normativa, entrambe caratteristiche del game: ed è la regola, dunque, ad introdurre nel gioco (in questo tipo di gioco) tanto la possibilità della competizione, quanto la ragione del divertimento.

Il che, come si è già detto, non è in sé un male. Ma lo diventa nel contesto del gioco di ruolo, dove ciò che si sta cercando di creare è una situazione di segno marcatamente opposto - un play, non un game. La massiccia regolamentazione che invece si realizza ottiene precisamente l’effetto contrario: con la pretesa di salvare il gioco dagli abusi indiscriminati di fantasie ingovernabili, lo si consegna invece alla logica competitiva e (a modo suo) monotona di un game in cerca di legittimità. Abbiamo così dei giocatori che riflettono su quanti punti di danno hanno inferto (e non sull’idea del colpo e delle sue conseguenze), quanti punti esperienza hanno guadagnato (e non su ciò che hanno appreso), quanto manca al prossimo livello (e non su che senso abbia continuare), chi è il più potente (e non su chi sia l’interprete migliore del proprio ruolo).

Contemporaneamente, gli oggetti e le azioni "reali" perdono, rispetto alle loro controparti immaginarie, quel carattere di pivot tipico del play dei bambini (cfr. cap. 2.5.), per diventare piuttosto simulacri simbolici di qualcosa che, sempre più, va perdendo il suo senso originario (la sua valenza nel contesto fantastico) e ne acquisisce uno nuovo (la riuscita o il fallimento dell’azzardo probabilistico). Così il colpo di lancia diventa il lancio di un dado, l’incantesimo del mago è una veloce ricerca su tabulati prestampati, la ferita mortale è un segno di matita sulla casella di una scheda. Tanto che a guardarli un gruppo di giocatori sembrano soltanto delle persone sedute attorno ad un tavolo ingombro di fogli; e il rischio è che, di questo passo, lo diventino davvero.

Anche perché le regole, come abbiamo visto, non sono prive di un loro fascino. E, nella metamorfosi da play a game che il gioco di ruolo sperimenta, il giocatore è spesso più simile ad un complice che non ad una vittima. Così che è questa la mia spiegazione alternativa sul perché vi siano tante regole nei giochi di ruoli: non per risolvere ipotetiche querelles sulla situazione immaginaria, ma per garantire ai giocatori il brivido del rischio, la sfida agonistica, l’azzardo strategico - in una parola: i molti divertimenti del game.

Da un lato, è chiaro come questo "tradisca" la ricerca originaria di un recupero "adulto" del play infantile; dall’altro, poiché in fondo si tratta di un gioco, non avrebbe senso pretendere di prescrivere ai giocatori come giocarlo: se essi preferiscono le seduzioni del game alle libertà del play, se cioè vogliono far per gioco piuttosto che fare un gioco, ben vengano. Quello che a noi interessa non è il loro destino, bensì ciò che succede al gioco nel contesto ibrido dei role-playing games: ci interessa cioè come le categorie del play e del game, forzatamente costrette a convivere e a confrontarsi nel medesimo gioco, interagiscano l’una con l’altra. A questo proposito, mi pare che quel che abbiamo fin qui detto apra due possibili interpretazioni del fenomeno.

Innanzitutto, potremmo pensare che la "coabitazione" di elementi del play e caratteri del game sia costitutiva dei giochi di ruolo, dunque destinata a permanere in essi. Se così fosse, ognuno di questi sistemi di gioco (ce ne sono ormai migliaia) dovrebbe far fronte alla medesima ambiguità, e decidere con quale alchimia risolverla: avremmo così certi giochi di ruolo in cui il play riceve più attenzioni del game (e i manuali, presumibilmente, diventano più leggeri), ed altri in cui invece accade il contrario (man mano che le schede dei personaggi si allungano e si arricchiscono di voci esotiche e raffinati tecnicismi). Di questa ipotesi troviamo fin d’ora alcune conferme: esistono infatti, e recentemente vanno diffondendosi sempre più, dei giochi di ruolo che hanno fatto del ritorno alla "purezza fantastica" il loro manifesto, e dei regolamenti ponderosi il nemico da sconfiggere - al punto che rifiutano (fra gli specialisti del settore) il nome stesso di "giochi di ruolo", per ribattezzarsi piuttosto "giochi di narrazione" (ed è significativo che si ricerchi la libertà di immaginare nel concetto di narrazione). E, del resto, anche i sistemi di gioco più "tecnici" si pongono sempre e comunque l’obiettivo ultimo di costruire un’ambientazione fantastica in cui i giocatori, pur sfogando sovente i loro pruriti agonistici, interagiscono ed "immaginano".

Ma la "psiche scissa" di questi poveri giochi di ruolo (e forse di chi li gioca, io per primo...) potrebbe anche essere considerata come l’esempio di uno stadio evolutivo del gioco scarsamente rappresentato "in natura" (cioè fra gli altri giochi). Secondo questa ipotesi (che, non lo negherei mai, è senz’altro più fantasiosa), il gioco di ruolo fotograferebbe un’attività ludica che, dal suo carattere originario di play, va via via mutandosi in game. Definirebbe allora uno stadio intermedio di un processo evolutivo (ma nutro riserve su questo aggettivo) che, ipoteticamente, potrebbe essere comune a tutti i fenomeni di gioco: come a dire che dietro ad ogni game c’è stato, un tempo, un corrispondente play, che poi, attraverso progressive "glaciazioni normative", si è oggettivato in una di quelle matrici formali di regole tanto care a Umberto Eco. E allora chissà che non si scopra un giorno che, all’alba dei tempi, a scacchi si giocava come oggi ci si gioca a Marostica, e al re era concesso di inseguire la sua regina per tutto lo scacchiere... Ma questo, naturalmente, è un gioco.
Daniele "fenna" Fenaroli

Marco Costantini

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« Risposta #3 il: 2010-02-02 11:51:05 »
Daniele grazie MILLE!!!
Escalo a Fisico: ti abbraccio.

Mattia Bulgarelli

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  • Mattia Bulgarelli
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« Risposta #4 il: 2010-02-02 12:17:56 »
Fanmail per la segnalazione! ^_^
Co-creatore di Dilemma! - Ninja tra i pirati a INC 2010 - Padre del motto "Basta Chiedere™!"

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« Risposta #5 il: 2010-02-02 12:33:00 »
La cosa ancor più importante, visto che certe cose "se le sono inventate dei pazzi nella testa che guardano solo a casi particolari" è che queste osservazioni sono state fatte in Italia e nel 2000-2001, probabilmente anche prima visto il tempo necessario per la realizzazione dell'articolo.
Fate un po' voi.
Daniele "fenna" Fenaroli

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« Risposta #6 il: 2010-02-02 13:03:59 »
assolutamente interessante

jackjack

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« Risposta #7 il: 2010-02-02 14:13:31 »
Molto interessante davvero (sopratutto consideando l'età).

Una cosa: ma le definizioni di play e di game a cui l'autore si riferisce sono negli articoli linkati o si rifanno ad altri trattati?
Al secolo Dario Giachi. Nel prossimo secolo chissà....

Niccolò

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« Risposta #8 il: 2010-02-02 14:45:34 »
incredibilmente interessante, come contattiamo gli autori?

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« Risposta #9 il: 2010-02-02 15:29:51 »
Aloa!
Citazione
[cite]Autore: jackjack[/cite]Una cosa: ma le definizioni di play e di game a cui l'autore si riferisce sono negli articoli linkati o si rifanno ad altri trattati?

Citazione
[cite]Autore: me medesimo]L'unico vero riferimento di cui si avrà bisogno è la definizione di play e game, che però mi pare ridondante riportare nel topic, quindi invito a leggerla nell'articolo.[/cite]

L'articolo si intende Giocatori bugiardi & interpreti sinceri di cui il link è sopra riportato (clicca sul titolo nel primo post), bada bene che se non ho letto male hanno decisamente a che fare con le CA.

@Domon,
EDIT
Googolando di Paglieri ho trovato una home page:
http://www.media.unisi.it/cirg/fp/paglieri.html
a cui sono arrivato da questo indirizzo:
http://www.istc.cnr.it/createhtml.php?nbr=81
Così, a naso, dovrebbe essere lui; fra l'altro ci sono altri articoli sul gioco da leggere.

Aloa!
« Ultima modifica: 2010-02-02 15:40:14 da fenna »
Daniele "fenna" Fenaroli

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« Risposta #10 il: 2010-02-02 16:13:04 »
O__O
Questa roba è dinamite, ci stavo riflettendo sopra giusto due settimane fa mentre studiavo il Gioco Simbolico infantile. Grazie Daniele! :D
Rinominato "Ermenegildo" vox populi, in seguito al censimento dei Paoli.

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« Risposta #11 il: 2010-02-02 23:42:02 »
Per essere un articolo universitario, manca una solida base sulle più recenti tecniche di design. L'autore ne fa solo un cenno (forse?). Il resto è interessante e pare anche condivisibile (cioè l'analisi del gdr tradizionale).
« Ultima modifica: 2010-02-02 23:42:40 da Lord Zero »
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Rafu

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« Risposta #12 il: 2010-02-02 23:55:07 »
Citazione
[cite]Autore: Lord Zero[/cite]Per essere un articolo universitario, manca una solida base sulle più recenti tecniche di design.


Considera che i due articoli sono datati al '99 e al 2000.

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« Risposta #13 il: 2010-02-03 00:11:43 »
@Lord Zero
Ci sono almeno due motivazioni a mio avviso validissime alla tua obiezione.
La prima è il quando ed è già stata fatta notare.

La seconda riguarda le modalità in cui gli articoli e il Big Model sono stati esposti, cioé pur essendo prodotti da accademici non sono stati pubblicati in ambito accademico, ne dibattuti se non nell'ambito del game-design dei gdr e nell'ambito del fandom, questo preclude l'accesso a coloro che fanno studi in merito. Il che non rende difficile il reperimento dei dati, ma ne rende delle fonti "fuori dal giro" e probabilmente accademicamente poco affidabili, quindi non credo. Forse l'unica delle critiche che ancora regge di quelle che avevo mosso a suo tempo.

La terza è legata al contenuto del testo che ha prodotto, cioé l'articolo non voleva indagare il rapporto regole nel gdr, ma la finzione e il gioco.

Aloa!
Daniele "fenna" Fenaroli

Articoli sulla ludologia e sul gioco dell'Università di Siena.
« Risposta #14 il: 2010-02-03 01:03:08 »
Citazione
[cite]Autore: Rafu[/cite]
Citazione
[cite]Autore: Lord Zero[/cite][p]Per essere un articolo universitario, manca una solida base sulle più recenti tecniche di design.[/p]
[p]Considera che i due articoli sono datati al '99 e al 2000.[/p]

Beh, in effetti questo spiega diverse cose. :-)

Citazione
[cite]Autore: fenna[/cite]La seconda riguarda le modalità in cui gli articoli e il Big Model sono stati esposti, cioé pur essendo prodotti da accademici non sono stati pubblicati in ambito accademico, ne dibattuti se non nell'ambito del game-design dei gdr e nell'ambito del fandom, questo preclude l'accesso a coloro che fanno studi in merito. Il che non rende difficile il reperimento dei dati, ma ne rende delle fonti "fuori dal giro" e probabilmente accademicamente poco affidabili, quindi non credo.

D&D non è una fonte accademicamente affidabile, non più di quanto lo siano The Forge o i gdr forgiti (sebbene il discorso sul periodo da solo mi smentisca lol). Ma in realtà, una qualsiasi ricerca degna di questo nome, non può estraniarsi dal resto del mondo e considerare come uniche fonti quelle delle pubblicazioni accademiche (sarebbe quantomeno bizzarro).

Citazione
[cite]Autore: fenna[/cite]La terza è legata al contenuto del testo che ha prodotto, cioé l'articolo non voleva indagare il rapporto regole nel gdr, ma la finzione e il gioco.

Si, ma è quasi la stessa cosa. Giocare con la fiction... cos'altro sarebbe un gdr se non questo? ;-)
« Ultima modifica: 2010-02-03 01:03:34 da Lord Zero »
Lord Zero - (Domon Number 0)

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