Chiacchieriamo > Materiale di ispirazione

[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura

<< < (2/3) > >>

Alessia Bartolacelli:
Scena 6 - Un tocco negato

Innamorata.
Non avrei mai pensato che potesse davvero accadere, non a me.
Non era qualcosa che sarebbe dovuto accadere a me, io ero stata cresciuta per diventare una sacerdotessa, non una moglie. E lo avevo accettato da tempo, senza rimpianti: avrei potuto aiutare la gente del villaggio, mi sarei occupata del tempio, avrei seguito con gioia le orme della nonna, eppure…
Eppure, nonostante ne fossi sempre stata convinta, non avevo ancora compiuto il passo della consacrazione. Perché..?
Il suo arrivo aveva preso le mie certezze e le aveva sconvolte, come sembrava ad una prima riflessione, o non aveva fatto altro che compiere qualcosa che semplicemente doveva essere?
Non presumevo nemmeno lontanamente di avere la saggezza necessaria per rispondere a una simile domanda.
Quale che fosse la realtà, non potevo più negare a me stessa la verità.
Vi erano mille e mille ragioni per le quali non avrei mai dovuto cedere ad un simile sentimento: il mio addestramento, i miei doveri, le mie responsabilità, il mio rango troppo umile, la mia inesperienza… nemmeno una volta tuttavia pensai all’eredità di sangue di Yato.
Riflettei a lungo, nei giorni successivi, sulle sue parole, soltanto per scoprirmi se possibile sempre più convinta di quanto gli avevo detto: che condividesse la natura del ghiaccio non aveva importanza, che suo padre fosse un oni non aveva importanza, che i suoi poteri trascendessero probabilmente la mia comprensione non aveva importanza…
Lo amavo. Il suo sguardo infinito, i quieti sorrisi, la voce profonda, la grazia letale e… si, anche gli occhi cangianti e i riflessi blu del ghiaccio sulla pelle. E il coraggio, la forza d’animo e la saggezza e… tutto di lui era Yato. E lo amavo.
Sospirai per l’ennesima volta da che avevo concesso a me stessa di ammettere la verità. Questo non importava: qualunque cosa provassi era ininfluente, il bushi non avrebbe mai potuto ricambiare i sentimenti di qualcuna come me. Non l’avrei messo in una posizione difficile comportandomi da sciocca. Mi aveva accordato la sua fiducia, non l’avrei ripagato con la delusione.
Di certo però avrei dovuto meditare a lungo: che i miei sentimenti per lui restassero un segreto non cambiava il fatto che il mio amore non fosse innanzitutto rivolto agli Dei. Sapevo di non potermi consacrare a  loro senza commettere un sacrilegio, non in quel momento. Restava da stabilire se avrei potuto farlo mai.
Quella mattina il sole brillava nell’aria, mitigando il freddo invernale. Non sarebbe durato a lungo, le nuvole distanti promettevano nuova neve forse già nel pomeriggio; decisi così di approfittare di ciò che restava del bel tempo per meditare alla cascata, un luogo per me sempre più speciale.
Lungo il cammino non potei fare a meno di pensare a come era stato percorrere quel sentiero insieme a Yato, ogni volta in cui era accaduto. C’era qualcosa di indefinibile nel modo in cui il mio spirito si quietava e ogni cosa sembrava esattamente come sarebbe dovuta essere, una sensazione di… perfezione che era un dono e un peso al contempo.
Era giusto che permettessi a me stessa di essere così felice insieme a lui, pur sapendo che non saremmo mai stati insieme? Era giusto permettere ai pensieri di vagare verso un futuro che non sarebbe mai potuto esistere, soltanto per la gioia d’un istante in cui mi concedevo di credervi?
Mi domandai cosa avrebbe detto Yato venendo a sapere di simili riflessioni da parte mia. Avrebbe riso della mia immaturità? Avrebbe forse compatito l’ingenuità di una ragazza incapace di essere all’altezza di ciò che le si chiedeva?
Non lo credevo.
Non pensavo avrebbe mai potuto ricambiare i miei sentimenti, questo no, ma… ero certa che non avrebbe riso di me, che nella sua compassione non vi sarebbe stata alcuna traccia di scherno. Probabilmente avrebbe sofferto per me. Un’ottima ragione, se di altre ancora avessi avuto bisogno, per tacergli una verità così piccola e ininfluente sul corso del fiume della sua vita.
A volte provavo la tentazione di piangere. Ma non durava mai a lungo: sarebbe stato un errore che avrebbe rovinato la bellezza dei ricordi con la tristezza, ed era un prezzo che non avrei pagato per l’illusorio sollievo di un mero istante. Quei ricordi erano troppo preziosi per me.
Forse sarebbe stato più facile, per me, se il bushi non avesse rappresentato l’incarnazione pressoché perfetta di tutto quanto considerassi degno di onore e rispetto, se anche il suo aspetto non fosse stato così tanto affascinante, la forza del suo spirito mi avrebbe comunque attratta con la stessa intensità di una fiamma su una farfalla notturna.
Qualche volta avevo udito frammenti dei discorsi delle donne del villaggio circa i loro mariti, o innamorati, o in generale sul fascino che secondo loro dovrebbe avere un uomo. Alcune tra le mie coetanee sembravano persino più interessate a simili discorsi che a qualunque altra cosa.
Io non vi avevo mai prestato troppo caso, essendo la bellezza del sembiante soltanto un momento,  neppure il principale, nel fiume della vita di ognuno, tuttavia…
Respirai profondamente il profumo della neve e dei boschi, nonostante il freddo sentivo le gote stranamente accaldate e… che Yato fosse bellissimo anche nell’aspetto ai miei occhi, non potevo negarlo. Ringraziai gli Dei per la solitudine di quell’ascesa.
Finalmente udii il gorgogliare cristallino dell’acqua oltre gli alberi. Di certo qualche ora di meditazione mi avrebbe aiutata a mettere ordine nei pensieri e a distogliere l’attenzione da questioni così…
Gli Dei dovevano avere un singolare senso dell’umorismo. O io un pessimo tempismo. Più probabilmente entrambe le cose.
Per un momento rimasi bloccata, letteralmente inchiodata sul posto da ciò che avevo di fronte agli occhi. Non c’era alcuna speranza di riuscire in qualche modo a non arrossire furiosamente.
Yato era immerso nel laghetto, usciva da sotto la cascata e, per quanto l’acqua gli arrivasse ai fianchi era evidentemente nudo.
Solo un momento, poi abbassai di scatto lo sguardo, ancorandolo alle punte dei miei calzari immerse nella neve, eppure continuai a vederlo come se la sua immagine semplicemente non potesse scomparire: l’acqua scorreva sulle spalle ampie, lungo le braccia e il torso evidenziandone i muscoli scattanti sotto la pelle liscia, dove non era solcata dalle cicatrici di chissà quanti combattimenti.
Qualche ciocca di capelli gli ricadeva sul viso, mentre le altre gli accarezzavano il collo solido e ben disegnato sfiorandogli appena le spalle. E i suoi occhi si erano fissati nei miei immediatamente.
Se fosse stato di spalle o se in qualche modo non mi avesse vista, sarei forse potuta tornare indietro e salvare così un brandello di dignità, ma quella possibilità mi era più che mai negata: potei soltanto restare immobile nella neve, arrossita come mai ero stata in tutta la mia vita, senza avere la minima idea di cosa fare o dire per sottrarmi al cocente imbarazzo del momento.
Yato uscì dal laghetto, lo intuii dai suoni perché non corsi nemmeno il rischio di alzare appena lo sguardo, e andò a fermarsi dietro una roccia dove probabilmente aveva lasciato i propri abiti. Non solo avevo disturbato le sue abluzioni, ma per rispetto a me le aveva interrotte.
“Mi-mi dispiace Yato… n-non era mia intenzione disturbarvi e… è meglio che io torni al villaggio, perdonatemi”, mi sarei volentieri morsa la lingua per il balbettio che non ero riuscita a evitare, ma prima che potessi voltarmi e tornare sui miei passi, lui mi fermò.
“No per favore Kagura, resta. E’ a me che dispiace e… se potessi perdonare il modo indecoroso in cui mi hai trovato, mi farebbe piacere parlare con te, se anche tu lo volessi”, era la prima volta in assoluto che lo sentivo così, un’ombra d’imbarazzo nella voce, il tono appena incerto, tanto che mi domandai se anche alcuni dei suoi pensieri non fossero stati simili ai miei.
Azzardai un’occhiata fugace verso la roccia, aveva indossato soltanto l’haori e aveva fatto qualche passo nella mia direzione. Voleva davvero che restassi, l’espressione del suo viso era meno… controllata rispetto al solito. Probabilmente anche la mia doveva esserlo.
Che gli Dei potessero perdonarmi, non volevo andare via.
Annuii esitante e mi avvicinai. L’haori lo copriva, ma non nascondeva né il petto né le spalle e non potei ignorarne le linee dei muscoli tesi. Pensavo di non poter arrossire di più, ma evidentemente sbagliavo.
Sedemmo vicini all’acqua, dove già tante volte avevamo parlato, ma il silenzio in quel momento era tutto fuorché tranquillo. Temevo quasi che potesse sentire il battito martellante del mio cuore contro il petto.
“Siete certo di non voler restare da solo..? Mi rendo conto che…”, scosse la testa più in fretta di quanto avesse mai fatto, osservai le gocce brillanti lasciare i suoi capelli per tornare alle acque del lago, “No..! Io vorrei… mi fa piacere che tu sia qui se… se anche per te è lo stesso”.
Non l’avevo mai visto così, non avevo mai sentito quel tono nella sua voce e… non avrei mai voluto andare.
“Non voglio andare via”, era una verità semplice e… sebbene fossi cosciente di quanto la situazione fosse poco appropriata non riuscivo a ricordarne il perché.
Il suo petto si mosse più velocemente, rincorrendo il respiro che accelerava, vidi gli occhi nei quali ero precipitata mutare fino ad accendersi dei riflessi del ghiaccio. I complicati e affascinanti segni blu dal collo scesero a solcargli il petto e le braccia.
“Davvero vuoi restare?”, vi era un’incertezza tale nella sua voce che mi spezzò il cuore, volevo cancellare qualsiasi timore avesse, scacciare per sempre la solitudine nei suoi occhi, “Si”.
Allungò una mano verso di me, lo sguardo che bruciava nel mio, la tensione nell’aria talmente intensa che non sapevo dove mi avrebbe portata e neppure mi importava, purché fossimo insieme.
Quando con la punta delle dita mi sfiorò il collo avrei potuto piangere, sfiorò lentamente l’incavo della spalla, ma… ad un tratto la sua carezza si fece dolore gelido e improvviso, mi ritrassi di poco più sorpresa che spaventata dal cambiamento.
Nei suoi occhi invece lessi la paura di avermi fatto del male, ritrasse la mano di scatto guardandola come se non la riconoscesse come propria, “Perdonami Kagura! Io non… non volevo e… stai bene?”, l’angoscia nella sua voce mi faceva più male del bruciore ghiacciato sulla pelle.
“Si non è niente, non preoccupatevi sto bene”, qualunque cosa avessi detto non avrei potuto cancellare il senso di colpa dalla sua espressione, eppure non avrei desiderato altro.
“Non succederà più, io mi… controllerò meglio in futuro, te lo prometto”, annuii, ma senza provare alcun sollievo: una piccola ferita non era niente paragonata alla perfezione del suo tocco, e la mia fiducia in lui era completa e totale.
Per restargli accanto avrei accettato di sciogliere il ghiaccio, o di farne parte allo stesso modo. Pregai gli Dei di riuscire a farglielo capire. 

Alessia Bartolacelli:
Scena 7 - Un complimento


La sera seguente Yato rientrò piuttosto tardi al tempio, secondo la sacerdotessa che gli aveva aperto la porta sembrava lievemente incerto sulle gambe, come se avesse esagerato con il sakè. Doveva aver trascorso la serata all’onsen, il liquore di Higurashi-san era noto per la sua purezza.
C’era qualcosa di profondamente strano nell’idea che Yato bevesse tanto da ubriacarsi, trovavo molto difficile immaginarlo.
Anche quella mattina vidi Oharu al tempio. La giovane sembrava sempre più felice ogni volta che l’incontravo, come se i suoi pensieri fossero costantemente altrove… temevo di sapere esattamente dove.
Sospirai profondamente per recuperare almeno un po’ di tranquillità di spirito. La nonna aveva chiesto a Oharu di restare per il pranzo e lei aveva accettato; non dovevo rovinare l’atmosfera del pasto con la mia malinconia.
Tra la spalla e il collo era rimasto il segno della bruciatura ghiacciata: la pelle violentemente arrossata era estremamente sensibile al tatto e avevo dovuto prestare particolare attenzione nel vestirmi. Sarebbero occorsi giorni prima che guarisse del tutto, ma non aveva importanza. Più del dolore fisico era stato il dispiacere negli occhi di Yato a farmi male.
Non avevamo avuto ancora occasione di parlare, lui aveva infatti trascorso fuori l’intera giornata successiva, per rientrare solo a tarda sera, mentre io ero stata particolarmente occupata con i riti al tempio; la preoccupazione della nonna per la tensione nel sigillo non faceva che aumentare.
Forse quel giorno sarebbe stato diverso, ma non avrei insistito se lui avesse preferito fare altro. Neppure se avesse preferito tornare alle terme, o visitare la bottega del mastro pellaio.
Sedetti alla destra della nonna come sempre, di fronte a me Yato e Oharu accanto a lui, quindi le altre sacerdotesse del tempio. Non sarebbe stato educato non sollevare mai gli occhi dal piatto, così mi costrinsi a interagire un minimo con i commensali: fortunatamente non ero mai stata di molte parole e non dovetti sostenere la conversazione. La nonna e il bushi discorrevano su quanto le scelte dei singoli individui influissero sul mondo, lei apprezzava molto gli argomenti filosofici e lo riteneva il modo migliore d’insegnare e imparare al contempo.
La giovane Oharu fu una commensale impeccabile, per quanto non sfuggisse a nessuno il modo in cui rivolgeva timide occhiate al samurai o arrossiva ogniqualvolta lui le si rivolgeva. O forse ero soltanto io a vederlo, forse era soltanto il mio spirito alterato dalla gelosia a leggere tanto.
Rabbrividii all’idea di quanto fossi ancora ben lontana dalla condizione di spirito che si confaceva a una vera sacerdotessa, quale immodestia la mia nel pensare il contrario!
“A quando dunque la cerimonia Kagura-san? Mio padre suole ripetere che per la vostra consacrazione intende impiegare ogni oncia delle sue capacità, a onore della nostra riconoscenza al tempio e a Sachiko-sama”, la domanda di Oharu mi colse di sorpresa, anche perché persa nelle mie riflessioni non avevo seguito il discorso. Presi tempo traendo un piccolo sorso d’acqua dalla coppa, ma così facendo incrociai inavvertitamente lo sguardo di Yato, che rese tutto più difficile.
“Oharu-san, vi prego di ringraziare fin d’ora il vostro gentile padre, sono certa che quando il momento giungerà potremo contare sulla sua arte”, una risposta evasiva per molti versi, ma parve sufficiente ad accontentare la giovane che rispose poi alla domanda di una consorella circa le quantità di pellame immagazzinate nel villaggio.
Nascosi un debole sospiro di sollievo dietro la coppa, ma tanto la nonna quanto Yato se ne accorsero e i loro sguardi mi accompagnarono per il resto del pasto.
Stavo per raggiungere la sala dei venti, quando udii la sua voce alle mie spalle.
“Kagura”, ci sarebbe mai stato un giorno in cui sentirlo pronunciare il mio nome non mi avrebbe dato un brivido? Ne dubitavo.
“Si Yato?”, mi voltai a guardarlo. Era solo e sul braccio portava ripiegato il mantello di pelliccia, mi chiesi se avrebbe accompagnato Oharu al villaggio.
“C’è qualcosa che vorrei mostrarti, puoi seguirmi?”, l’ultima volta che mi aveva chiesto qualcosa di simile era stato perché il demone Sesshoumaru si era palesato alla cascata, ora non sembrava in alcun modo preoccupato o in ansia, ma…
“Non temere, non c’è nulla di pericoloso. Soltanto qualcosa che dovresti vedere”, poteva dunque leggermi con tanta facilità?
Annuii e mi preparai a seguirlo. Mentre allacciavo la sopraveste faticai a tenere a bada la gioia che provavo.
Avevo temuto di perderlo, che per timore di quanto era accaduto due giorni prima Yato non volesse più passare del tempo con me, che non si fidasse più di sé stesso. Avevo accettato la consapevolezza che non saremmo mai stati insieme, ma la sua amicizia… quella, almeno a quella non avrei mai voluto ne potuto rinunciare.
Lasciammo il villaggio lungo uno dei sentieri che costeggiavano il ruscello ad est. Conoscevo quella pista, per quanto fosse una delle meno frequentate: i boschi su quel lato erano fitti e ricchi di predatori, lupi e talvolta persino orsi. Yato procedeva mezzo passo davanti a me, e quando abbandonammo il sentiero per inoltrarci nel bosco si premurò di scostare di volta in volta i rami più bassi e i cespugli che avrebbero potuto ostacolare i miei passi.
Ritrovare la serenità del passeggiare con lui fu una lieta riscoperta. Sapevo solo approssimativamente dove ci trovavamo, ma non avevo alcun timore di perdere la strada: conoscevo abbastanza i dintorni da essere ragionevolmente sicura di ritrovare la strada, e poi Yato procedeva con la sicurezza di chi sapeva esattamente dove stava andando.
La neve al di sotto degli alberi fitti era molto più bassa, rendendo il cammino più agevole di quanto avevo pensato in un primo momento, mi sorprese ad un tratto rendermi conto che il freddo era notevolmente diminuito.
“Ci siamo”, rivolsi al samurai uno sguardo interrogativo cui lui rispose con un cenno. Scostò una fronda a rivelare qualcosa che non mi sarei mai aspettata, non così lontano dalle sorgenti termali.
Una polla termale quasi perfettamente circolare occupava buona parte di una piccola radura che si apriva all’improvviso tra gli alberi fitti: l’acqua cristallina fumava per il vapore e la neve intorno era quasi del tutto sciolta a causa del piacevole calore. Era un luogo splendido.
Yato non disse nulla, limitandosi a restare al mio fianco quando superai gli ultimi cespugli per avvicinarmi alla polla. Allora notai un particolare: non c’erano impronte nella neve bassa vicino all’acqua, pur imbattendosi in quel luogo dalla bellezza unica, il bushi doveva essersi fermato senza avvicinarvisi.
“Yato ma…”, guardai a terra e poi lui, tanto che dovette intuire il corso dei miei pensieri. Sorrise, “Quando l'ho trovato ho pensato che dovessi vederlo”.
Il mio cuore accelerò rincorrendo pensieri che mi ero ripromessa più volte d’ignorare, ma in qualche modo riuscii a non arrossire. E fu un bene, perché dopo un momento compresi meglio ciò che intendeva.
Quello che in un primo momento non avevo visto era la statua. Un idolo volpe di pietra era intagliato nella roccia viva accanto al margine della polla: parzialmente ricoperto di edera secca e neve, se ne stava dimenticato all’apparenza da innumerevoli anni.
“Sapevi della sua esistenza?”, scossi la testa e mi avvicinai, inginocchiandomi accanto alla statua, “No, non avevo mai sentito di un kami in questo bosco. Credo che nessuno al tempio ne sia a conoscenza”. Parlando scostai un po’ della neve dalla statua, quindi insieme la liberammo dall’edera e da tutto ciò che il tempo vi aveva lasciato.
Da una tasca dell’haori, Yato estrasse alcuni bastoncini d’incenso profumato. Li accendemmo ai piedi della volpe e io invocai la benedizione degli spiriti su questo luogo.
“Credi sia per questo che il demone temuto da tua nonna si stia risvegliando?”, mi sorprese sentirlo parlare di questo: nessuno nel villaggio parlava di Sesshoumaru, nemmeno la nonna. Temevano che parlarne apertamente rischiasse di evocarlo.
“E’ possibile che l’aver dimenticato di onorare la protezione di alcuni kami abbia… un certo peso in quello che la nonna teme”. Presi un lungo respiro mentre gli incensi coloravano l’aria con un intenso profumo di ciliegio in fiore.
Inginocchiati insieme di fronte al kami volpe, avvolti dal profumo di ciliegio in pieno inverno… pensare alla minaccia del demone non era mai stato così difficile.
“Perché non me ne hai mai parlato?”, la sua domanda arrivò dopo lunghi istanti di piacevole silenzio, non c’era risentimento ma soltanto sincera curiosità, pensai attentamente prima di rispondere: “Mille anni fa, un demone delle tempeste minacciò di distruggere il villaggio. Il più forte tra i guerrieri di allora riuscì però a sconfiggerlo e a sigillarlo nella montagna, era il padrone di Tessaiga”, i suoi occhi non lasciarono i miei neppure per un istante mentre raccontavo, “Il guerriero morì per le ferite subite, ma il suo sacrificio era nella spada che lo rappresentava, e secondo la tradizione essa avrebbe continuato a sigillare Sesshoumaru, il demone lupo. Il tempio venne costruito a protezione del sigillo e da allora le sacerdotesse custodiscono la spada e vegliano sui segni”.
Non avevo ancora risposto alla sua domanda, ma trovare le giuste parole non fu facile, “Ogni persona qui nasce con la paura del demone, si teme che parlarne lo evochi. La nonna teme che… non manchi molto al suo risveglio”. Tacque guardandomi con estrema attezione, “Anche tu lo temi?”.
“Io non temo l’inverno Yato. Non ho timore del freddo. Ma di Sesshoumaru… temo ciò che so di lui e cosa potrebbe fare. Temo di non essere all’altezza di fare ciò che sarà necessario in quel caso, temo che il mio fallimento condanni le persone a cui tengo. Questa… questa è la mia paura del demone”.
Nei suoi occhi d’ossidiana brillarono tutti i mille riflessi della neve, quasi mi mancò il respiro nel perdermi in una simile infinita bellezza…
Il sorriso che amavo gli illuminò il volto, mentre lo sguardo ammirato con cui mi onorò mi lasciò senza parole per la gratitudine, “In te non c’è soltanto la bellezza, ma anche una forza straordinaria, vorrei ti concedessi di vederle Kagura”.
Bella. Davvero mi trovava bella? Yato pensava fossi bella… era incredibile e… meraviglioso.
Per la prima volta in vita mia pensai a me stessa come a una persona forte. Non ero mai davvero riuscita a crederci prima, nonostante la nonna e molti altri avessero fiducia nelle mie capacità, io avevo sempre dubitato…
Yato credeva in me, forse potevo farlo anche io.
Restammo alla polla per il resto del pomeriggio, fin quando le ombre della sera si allungarono sulle acque. Allora tornammo insieme al villaggio, fianco a fianco.

Alessia Bartolacelli:
Scena 8 - Un dono e una confessione d'amore interrotta


“Così sei tu ad occuparti dei manoscritti del tempio?”, annuii senza perdere il sorriso. Il pomeriggio era particolarmente piacevole nonostante il freddo intenso, ma forse era soltanto perché Yato era venuto a cercarmi dopo i riti del mezzodì.
Passeggiavamo da quasi un’ora nei giardini innevati quando il discorso toccò l’importanza della conoscenza dei testi per l’educazione di ognuno, non mi sorprese affatto scoprirlo un fine conoscitore delle dottrine e un estimatore della poesia: era ancora impresso nella mia mente il pomeriggio in cui avevo suonato per lui mentre terminava di comporre un haiku, avevamo suonato insieme e il mio cuore aveva gioito di quel momento come mai prima di allora.
“Non soltanto, tutte le sacerdotesse hanno questo onore, ma tra i compiti che mi sono affidati è uno di quelli che preferisco. Ho sempre amato molto leggere, sin da bambina”, sorrise del mio genuino entusiasmo, “Tua nonna me ne ha parlato”. Lo guardai, ora si sorpresa, non pensavo che la nonna parlasse di simili argomenti con lui, “La nonna ha… sempre incoraggiato questa mia passione, è stata lei a insegnarmi. Ha fatto lo stesso anche per molti bambini del villaggio”, come Oharu per esempio, era la prima volta quel giorno che pensavo alla giovane, ma non permisi a me stessa di rattristarmi.
Una folata di vento più fredda delle altre mi fece stringere un po’ di più nel mantello, Yato probabilmente se ne rese conto e rivolse un’occhiata al cielo carico di neve. Stavo per negare, declinare quello che pensavo sarebbe stato il suggerimento a rientrare, ma lui mi sorprese ponendo la questione in modo diverso, “Kagura vorrei mostrarti alcuni tra i testi che mi sono più cari, non me ne separo mai”. Lo osservai per alcuni istanti, onorata della sua considerazione, “Ne sarei onorata Yato”. Sorrise e ci incamminammo di nuovo verso il tempio.
La sua stanza era immutata rispetto a come l’avevo vista qualche giorno prima: l’armatura perfettamente lucidata in un angolo pareva un guerriero senza volto assorto in misteriose riflessioni, il futon giaceva ordinatamente ripiegato poco distante, mentre sul tavolino basso stava il necessario per preparare e servire il thè.
Yato mi fece accomodare accanto allo scrittoio di legno chiaro, su di esso una pergamena intonsa attendeva di farsi tramite di nuovi versi.
Da una cassapanca il bushi estrasse con attenzione alcune custodie di pelle finemente decorate, quindi sedette accanto a me e le aprì, svelando ai miei occhi alcune delle pagine più belle che avessi mai visto: la finezza dei tratti e la precisione degli inchiostri rendevano ognuno di quei manoscritti un singolo capolavoro.
Me li mostrò uno alla volta, senza alcuna fretta, talvolta leggendomene alcuni passi, o lasciando lo facessi io. Fuori la neve aveva preso a cadere copiosa dal cielo plumbeo, ma non vi rivolsi il minimo pensiero, non lì, non in quel momento.
Tra i testi che mi mostrò vi erano anche alcuni sutra, non quello dell’amore però. I miei pensieri si soffermarono forse più del dovuto su quel particolare perché Yato mi rivolse uno sguardo interrogativo dopo un silenzio forse troppo prolungato.
“Pensavo che… mi sorprendete una volta di più”, l’espressione interrogativa si accentuò e non potei fare a meno di sorridere, l’atmosfera tutto sommato era davvero distesa, “Non per questi…”, accennai ai manoscritti sul tavolo, “Ma per quello”.
Seguì il mio sguardo fino al tessen infilato nella sua cintura, “Ricordate la prima volta che abbiamo parlato? Stavate lucidando le vostre armi nella sala dei venti e in quell’occasione vidi il vostro tessen e il sutra tracciato su di esso”. Capì e lo sguardo interrogativo lasciò nuovamente il posto al sorriso, “Ricordo bene”, estrasse l’arma e la aprì porgendomela con cautela. Sorpresa di nuovo - che un bushi affidasse ad altri le proprie armi, anche solo per un momento, era qualcosa che non avrei ritenuto possibile - porsi le mani prendendo il ventaglio dalle sue con la massima cura.
“Fa attenzione”, la sua preoccupazione era per me: non temeva che danneggiassi il tessen, ma che mi ferissi con esso. Sorrisi e lo ringraziai con un gesto, “Dimenticate quale sia il mio compito principale qui al tempio? Conosco abbastanza le armi da rispettarle Yato”.
Annuì ma i suoi occhi rinnovarono la raccomandazione.
Mi presi il tempo per ammirare la perfezione dell’arma, la grazia dei kanji dipinti e il filo perfetto delle lame, finché non mi trovai a recitare il sutra a bassa voce: “Lasceremo che il nostro amore pervada l’universo intero, in tutte le direzioni. Il nostro amore non conoscerà ostacoli. Il nostro cuore sarà assolutamente libero da rancori e ostilità. Questa…”, “Questa è la più nobile maniera di vivere”, concluse lui il verso, lo sguardo fisso nel mio, la mia consapevolezza che minacciava di perdersi nell’abisso di ossidiana dei suoi occhi.
“Kagura vorrei che accettassi una cosa da parte mia”, liberò il miei occhi il tempo sufficiente a estrarre dal baule un’altra custodia, quindi me la porse con un sorriso.
“Yato io davvero non posso accettare…”, scosse la testa, “Non è che un piccolo dono, è… qualcosa che vorrei avessi tu”.
Il cuore accelerò i suoi battiti mentre posavo il tessen sullo scrittoio con la massima attenzione, per prendere la custodia dalle sue mani: aprendola vi trovai una pergamena perfetta quanto le altre che mi aveva mostrato, al centro in kanji perfetti stava un singolo haiku.
Freddo tagliente
tra le solide rocce.
Note leggere.
Alzai commossa lo sguardo dalla poesia ai suoi occhi, “Questo è…”, annuì, “L’haiku che composi quel giorno nel giardino di pietra. La tua melodia mi ha concesso di terminarlo e io vorrei fosse tuo”.
Abbassai lo sguardo, non sarei riuscita a contenere le lacrime se avessi continuato a guardarlo in viso, “Grazie Yato, questo… non ho parole per dirvi quanto lo consideri prezioso”.
Rilessi i versi altre volte prima di ripiegare la pergamena come fosse un tesoro, e lo era davvero… faticai a contenere la commozione, il cuore che si ostinava a disobbedirmi e a non rallentare.
Yato continuava a osservarmi, lo stesso quieto sorriso dipinto sul viso, finché riprese il tessen dal tavolo, chiudendolo con gesti lenti ed estremamente rispettosi. Lo guardai incantata, “Deve essere molto importante per voi”, temetti per un istante di aver oltrepassato il limite accennando a qualcosa che comunque non mi riguardava. Il bushi mi sorrise di nuovo, “Si. Sono legato a quest’arma più che alle altre, è una storia lontana però… ugualmente vorresti sentirla?”, annuii.
Con un singolo gesto, talmente veloce che nemmeno lo vidi, aprì il tessen: le lame scattarono fendendo l’aria davanti a noi con un movimento fluido quanto l’acqua stessa.
“Quando conclusi l’addestramento, il mio sensei mi diede tre cose: il nome, il rispetto, e quest’arma. La custodiva come un tesoro, perché gli era più cara anche della katana. E’ un’arma difficile, diceva, padroneggiare il tessen significa comprendere l’essenza degli elementi e il loro intrecciarsi”, tacque alcuni istanti, lo sguardo su quei ricordi attentamente custoditi, “Aveva avuto altri allievi naturalmente, ma… ciò che più aveva significato per lui volle darlo a me”.
Era evidente quanto grandi fossero il rispetto e l’affetto che l’avevano legato al sensei, iniziai a temere una delle ragioni che portavano Yato a indossare sempre il bianco.
La tristezza era scesa su di lui come un mantello, il mio cuore ne soffriva tanto che non riuscii a impedirmi di farlo. Allungai lentamente una mano e, questa volta si, gliela posai sul braccio.
I suoi occhi si alzarono nei miei, uno sguardo talmente intenso che quasi mi mancò il respiro; la mia voce tremò, scossa dalla commozione che non riuscivo più a contenere, “Lui aveva una tale fiducia in voi… e nonostante questo, ancora dubitate?”.
Trattenne il respiro per un istante, negli occhi un vortice che non mi riuscì d’interpretare. Non sapevo cosa avrebbe fatto, ma non aveva importanza perché anche io, come il suo sensei, avevo assoluta fiducia in lui.
“Kagura io…”.
Non finì la frase. E io non finii nemmeno il respiro. L’aria fu scossa da un boato che riecheggiò nella terra stessa. Le pareti tremarono mentre alcune pergamene cadevano a terra, insieme alle tazze per il thè e a molto di ciò che c’era nella stanza.
Era la prima volta che lo sentivo tanto chiaramente… e così vicino. Sesshoumaru gridava il suo oltraggio e la montagna stessa ne era scossa fin nelle fondamenta.
Yato si alzò immediatamente tirandomi in piedi con lui, qualunque cosa stesse per confidarmi era oramai perso nel turbine d’ira del demone, mi concessi di rimpiangerlo il tempo che impiegammo a raggiungere di corsa il cortile del tempio, poi mi costrinsi ad agire per aiutare le persone che erano accorse terrorizzate, a pregare per scongiurare il peggio.
Ero l’allieva della prima sacerdotessa e questo era il mio compito. Ma se non provai il cieco terrore che vidi negli occhi dei miei compaesani, fu soltanto grazie alla presenza di Yato, mai troppo distante.
Sempre e comunque vicino al mio cuore.

Alessia Bartolacelli:
Scena 9 - Una confessione d’amore oltre la disperazione

“Preferirei accompagnarti, se me lo permetti”, la nonna mi aveva chiesto di controllare lo stato delle statue dei kami intorno al villaggio, preoccupata per la tenuta del sigillo. Non l’aveva detto chiaramente, ma potevo leggere la preoccupazione nei suoi occhi.
Yato si era offerto di accompagnarmi e, come in occasione dell’esorcismo alla cascata, non indossava il mantello di pelliccia e le spade erano libere. Libere di essere sfoderate in caso di pericolo.
Temeva fossi in pericolo. Poi ricordai, lo eravamo tutti, e il suo gesto era dovuto alla sua gentilezza e alla sua cavalleria, non era il momento di perdersi in evanescenti speranze d’amore, lo sapevo ma… quello che stava per dire il giorno prima… continuavo e sentire l’eco della sua voce nel mio cuore, continuamente.
“Grazie Yato…”, mi sorrise e insieme lasciammo il tempio.
Per ultimo avevamo lasciato il kami volpe  nascosto nel bosco a est. Il pomeriggio iniziava oramai a declinare e la neve scendeva lentamente dal cielo, grazie agli Dei la giornata era passata senza che Sesshoumaru si facesse nuovamente sentire.
La piccola polla termale pareva ancor più bella della prima volta.
Mi sentii quasi in colpa: non solo era come se la paura che incombeva su tutto il villaggio a malapena mi sfiorasse, ma anche in un momento simile non potevo fare a meno di essere felice di trovarmi ancora lì. Insieme a Yato.
Sciocca e infantile, questo probabilmente avrebbe pensato. Scossi piano la testa per scacciare questi pensieri, così vidi che lui mi osservava: non con l’attenzione di chi cercava di dirimere un interrogativo, semplicemente i suoi occhi mi seguivano. E davanti a essi il mio cuore accelerò.
Sedemmo a pregare insieme gli Dei, rinnovando l’incenso alla base della statua. Di nuovo il dolce profumo di ciliegio si unì ai vapori dell’acqua termale, avvolgendoci entrambi.
“In molti paragonano la vita di un bushi al fiore di ciliegio”, la sua voce era bassa, avvolgente come le acque del più profondo lago di montagna, non riuscii a evitare un brivido che lui fortunatamente parve non notare.
Certamente anche io avevo sentito di quel paragone, estremamente poetico per quanto impietosamente terribile nella profondità del suo significato.
“Il ciliegio tra i fiori, il bushi tra gli uomini”, mormorai in risposta. Yato annuì volgendo lo sguardo dalla statua ai miei occhi: lessi in lui uno sconforto che mi fece male, la medesima malinconica solitudine che avrei fatto di tutto per cancellare.
“Una vita perfetta e caduca quanto un fiore”, sospirò, “Ma se così è… cosa ci rende diversi da una semplice arma? Forse non vi è altro destino per un guerriero che morire come un’arma?”.
“Io non lo credo”, i suoi occhi tornarono immediatamente nei miei, per poco infatti la malinconia li aveva distolti, “Un’arma non può scegliere la propria battaglia, un’arma non prova niente. La vita di un bushi… la vita di un uomo è assai più di questo”.
I suoi occhi non mi lasciarono nemmeno quando tacqui per radunare i pensieri, “Pensare a un uomo come un’arma svuota di significato la sua vita, il significato sta nelle scelte che si compiono e non lo si può ignorare. Almeno questo è… ciò che io credo”. Sorrise, un riflesso di riconoscenza nella sua espressione.
“A volte ho pensato a me stesso in questi termini. Ciò che i miei avversari sostenevano, che non fossi degno di rispetto, che non ci fosse merito alcuno nelle mie vittorie, alcuno sforzo nelle mie abilità, alcun onore nelle mie battaglie talvolta mi ha… fatto dubitare”.
Il dolore che un simile dubbio gli scavava nell’animo era un solco che lo tormentava, con tutto il cuore pregai gli Dei di riuscire a fargli vedere la verità.
“E’ forse colpa dell’aquila volare quando il coniglio non può farlo? O dell’orso, che tanta più forza ha del cervo?”, tacqui alcuni istanti, ma non avrei potuto lasciare i suoi occhi per niente al mondo, “Uomo, guerriero, mezzo oni, samurai… tutto questo fa parte di te, ma… non è te. Tu sei Yato e niente altro ha davvero importanza”. Di certo non ne aveva per me.
Qualcosa della mia espressione dovette tradire i miei pensieri, perché lui cambiò davanti a me, senza lasciare il mio sguardo, “Sei sicura di questo?”.
Che avesse gli occhi neri o di ghiaccio, che la pelle fosse bianca o solcata dai misteriosi tratti blu, non aveva alcuna importanza per me: Yato era un uomo degno di rispetto e onore, e di più… era l’uomo che amavo con tutto il cuore e questo non sarebbe mai cambiato.
“Si”, non ebbi alcuna esitazione. A rimarcare il peso della sua domanda, il bushi immerse una mano nella polla termale: il vapore fischiò per un attimo prima che l’intera superficie venisse ricoperta dal ghiaccio, “Ne sei davvero sicura Kagura?”, “Si”. Di nuovo nessuna esitazione, in quel momento che leggesse il segreto del mio cuore nei miei occhi non mi importava.
Ritrasse la mano e i tratti legati alla sua ascendenza sovrannaturale lentamente svanirono insieme al ghiaccio nella polla.
“Kagura io… vorrei davvero… ma come posso…”, lasciò cadere la frase e abbassò lo sguardo sulle sue mani. Ma a cadere infinitamente più in basso era il mio spirito, lo stavo perdendo a ciò da cui avrei voluto salvarlo per sempre, alla tristezza soverchiante che più di ogni altra cosa volevo cancellare.
“No… Yato non lasciate che a vincervi sia un ingiusto timore”, sentivo il cuore martellare incessantemente contro il petto, tanto che temevo finisse per scoppiare.
Troppo amore per un solo cuore, troppo per un solo spirito.
Pregai gli Dei mi perdonassero, ma il mio amore non sarebbe mai stato loro esclusiva. Era suo, completamente.
Senza quasi accorgermene, le mani raggiunsero la spilla a chiusura della sopraveste. Quando mi scivolò dalle spalle non avvertii alcun disagio, il suo sguardo tornò ad affondare nel mio e si accese.
Soltanto di quello avevo bisogno, il calore di una veste era nulla a confronto.
La mia scelta era fatta. Lì, in quel luogo sacro, nel silenzio del mio spirito avevo consacrato me stessa a Yato.
Trattenne il respiro quando feci scendere l’orlo del kimono a scoprire la spalla, ma dopo un istante oltre il desiderio i suoi occhi si velarono per il senso di colpa: esitante sollevò la mano, come volesse sfiorare il segno lasciato dalla bruciatura gelida, ma fermò assai prima quella carezza carica di rimpianto.
“Mi dispiace così tanto…”, no! Non mi sarei arresa, non l’avrei lasciato andare, non questa volta. Se la mia vita aveva un significato, stava tutto in questa scelta.
Gli presi la mano e la tenni stretta tra le mie, sentivo le lacrime bruciare ai lati degli occhi, ma rifiutai di arrendermi ad esse, “Ti prego… ti scongiuro Yato non darti la colpa anche di questo..!”. Abbandonai qualsiasi forma di rispettoso distacco, improvvisamente non avevano più senso.
Non avevo mai pregato nessuno con tanta intensità, non avevo mai provato un sentimento così forte che sembrava non potessi in alcun modo contenerlo, non pensavo sarei mai stata capace di tanto.
Ma non avevo mai neppure desiderato con altrettanta forza. Non avevo mai nemmeno sospettato cosa fosse l’amore, prima.
Il suo sguardo, la sua espressione… cambiarono. Come se il fuoco avesse ripreso a bruciare con rinnovata intensità, come se l’ombra del dubbio fosse improvvisamente scomparsa, come se anche lui provasse ciò che mi sconvolgeva.
Un momento più tardi mi trovai stretta nel suo abbraccio. Travolta da sensazioni troppo più forti di qualunque altra cosa avessi mai provato, potei soltanto stringermi a lui, unico bastione a difendermi dall’uragano.
"Kagura, grazie a te ho compreso che sono un uomo e che non devo vergognarmi del mio retaggio demoniaco. C'è tanta saggezza in te, tanta meraviglia che non vedi”, sospirò stringendo appena l'abbraccio, “Hai saputo vedere dentro di me ciò che io stesso non potevo vedere, sei speciale". Non sarei riuscita a dire nulla, sollevai appena lo sguardo e alcune lacrime vinsero la mia resistenza. Dolcemente, Yato le asciugò con la punta delle dita, una carezza tanto lieve quanto saldo era il suo abbraccio; ad entrambi mi abbandonai, lasciandomi affondare nei suoi occhi.
Un demone millenario incombeva sul villaggio, eppure… in quell’istante provai la felicità più assoluta e il più lancinante desiderio di eternità.

Alessia Bartolacelli:
Scena 10 - Una promessa fatta


Ci erano voluti giorni interi per porre rimedio ai danni maggiori procurati dal ruggito del demone. La gente del villaggio era terrorizzata e in molti non se l’erano sentita di dormire nelle proprie case, preferendo restare al tempio. Trovare posto per tutti non era stato semplice.
La nonna era instancabile, pregava incessantemente per rinsaldare il sigillo e contemporaneamente si occupava di aiutare tutti: la ammirai ancora di più per la forza immensa che stava dimostrando. Io cercavo di fare altrettanto, al massimo delle mie possibilità, soprattutto tentavo di infondere il coraggio in quei cuori terrorizzati.
Tutti erano annichiliti dalla minaccia oramai incombente, la nonna me lo confermò prendendomi da parte un momento, dopo le preghiere della sera: Sesshoumaru stava per svegliarsi, il sigillo quasi infranto, se non fossimo riuscite a fare qualcosa per impedirlo il villaggio sarebbe stato condannato.
In tutto questo, Yato restò sempre a disposizione, aiutando in tutti i modi possibili, dandomi tutto il coraggio che serviva ad affrontare l’emergenza: non potevamo rischiare il panico, se davvero il demone si fosse risvegliato avremmo dovuto agire in fretta e lucidamente, salvare le persone era la priorità.
Purtroppo vi erano molti anziani, molti bambini, molte persone che non sarebbero state in grado di affrontare lunghe marce in pieno inverno. Quella stessa sera, mentre tranquillizzavo un gruppo di bambini spaventati dagli incubi mi ritrovai a pensare a come poter trasferire altrove tutte quelle persone, e dove poi? In un’epoca di guerre continue come quella che stavamo vivendo, erano ben pochi i luoghi sicuri per la popolazione inerme di un piccolo villaggio.
E poi alcuni degli anziani non avrebbero potuto camminare, se non ci fosse stato Yato ad aiutare Uzumaki-san a raggiungere il tempio, l’anziano non avrebbe potuto farcela, sua nipote era troppo piccola per sorreggerlo…
E i bambini piccoli…
Sentii distintamente la morsa dello sconforto stringersi intorno alla mia gola. Faticavo a vedere una soluzione, ma non potevo perdere la speranza, anzi: dovevo averne abbastanza per tutti.
“Stai bene?”, la sua voce profonda disperse anche l’ultima ombra di timore, lo guardai immensamente riconoscente per… ogni cosa. Per essermi accanto, per il suo sostegno, per la sua fiducia. “Si, non preoccuparti. E’ stato solo un momento”, mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, i bambini oramai addormentati non avevano più bisogno di me.
“Dovresti riposare Kagura”, sorrisi e strinsi con più forza la sua mano, grata per la sua preoccupazione, “Lo farò ma… ora ci sono così tante cose da fare e a cui pensare che…”. Non riuscii a concludere il discorso che una delle sacerdotesse venne a chiamarmi di corsa: la nonna richiedeva immediatamente la mia presenza.
Guardai Yato per un lungo istante prima di seguirla, sentendo la sua mancanza dal momento esatto in cui gli lasciai la mano.
“Il peggio sta per succedere nipote mia. Il sigillo è quasi del tutto infranto, sembra che i santuari stiano cedendo uno dopo l’altro. Vorrei che tornassi a verificare lo stato di quelli a est del villaggio per prima cosa domani mattina”, annuii senza interromperla, “Naturalmente mi sentirei molto meglio sapendo che non andrai sola, sono ragionevolmente sicura che Minamoto-san vorrà accompagnarti”. Non seppi interpretare la sua espressione, sembrava vi fosse un dubbio nella sua mente e stesse cercando di decidere se darvi voce o meno.
Sembrava inamovibile come un albero secolare, ma la stanchezza traspariva nello sguardo e nei gesti, “Oba-sama dovresti riposare un poco…”. Mi accarezzò il viso sorridendo, “Non è il momento Kagura, ma non preoccuparti per me, sto bene. Piuttosto nipote mia, tu… ultimamente hai parlato molto con il bushi non è vero?”. Il mutamento nel discorso mi sorprese tanto che per poco non arrossii, “Io… si, è vero Oba-sama”, parve riflettere attentamente, “E Kagura lui non…”, mi guardò negli occhi a lungo, come se cercasse di sondare i miei pensieri o il mio spirito.
Scosse la testa, “Non fa niente. Non voglio che… va a riposare nipote mia. Ricorda quello che ti ho chiesto di fare”.
Annuii domandandomi cosa volesse chiedermi di Yato, non credevo che lei o chiunque altro sapessero la verità sulle sue origini, ma qualcosa mi diceva che riguardava altro, forse… forse Sesshoumaru.
Prima di ritirarmi raggiunsi la sala del venti, l’unico luogo del tempio a non essere ingombro di persone. Tessaiga mi attendeva, come ogni sera la presi e la sguainai per pulirne la lama e controllare il filo. Feci tutto quello che facevo di solito, intessendo ai consueti gesti preghiere agli Dei finché, al momento di rinfoderarla, esitai.
Se soltanto fossi degna di brandirti, pensai, se soltanto sapessi come usarti per combattere…
Ma non lo sapevo, ero la custode della spada, non la sua padrona.
Yato forse avrebbe potuto. Ma non glielo avrei mai chiesto. Mai.
Yato. Era questo che la nonna alla fine aveva deciso di non chiedermi. Mi aveva risparmiato una pena infinita e non le sarei mai stata grata abbastanza.
Rinfoderai Tessaiga e la riposi al suo posto sull’altare, pregando ancora gli Dei per un segno, qualcosa che mi permettesse di aiutare a salvare il villaggio.
Non era ancora l’alba quando lasciammo il tempio. Quella notte avevo dormito poco, di un sonno flagellato dagli incubi: distruzione, dolore, morte. E io che non riuscivo in alcun modo a evitare nulla di tutto questo alla mia gente, nemmeno a colui che amavo.
Procedevamo fianco a fianco, abbastanza vicini che, talvolta, le nostre mani si sfioravano. Il freddo si era fatto innaturalmente intenso, gli alberi e le case erano incrostati di ghiaccio e gli animali nelle stalle erano silenziosi come fantasmi. Faceva talmente freddo che la neve cadeva in fastidiosi frammenti completamente ghiacciati, che turbinavano nel vapore del mio respiro.
Non dicemmo nulla durante il tragitto, lasciando che a parlare per entrambi fosse l’indugiare nella dolcezza delle occasionali carezze delle nostre mani.
Non avevamo più parlato da soli da quando eravamo stati alla polla l’ultima volta due giorni prima, non ce n’era stato il tempo. I nostri discorsi da allora erano fatti di sguardi brevi e intensi, mentre il ricordo del suo abbraccio e delle sue parole mi scaldava il cuore in un modo che alcun gelo maligno avrebbe potuto estinguere.
“Kagura guarda”, alzai gli occhi dalle radici congelate di un albero fino alla polla termale. Nell’aria i vapori ai quali ero abituata avevano lasciato il posto al freddo impietoso che avvolgeva tutta la montagna: la polla era una liscia superficie di ghiaccio, mentre il kami volpe giaceva schiantato in due pezzi sul bordo.
Portai entrambe le mani al viso, colta di sorpresa dalla sofferenza provocata da una simile vista. “No…”, impiegai più di un momento a riprendere il controllo di me stessa, mi inginocchiai accanto alla statua spezzata e Yato fece lo stesso. Vicini come molte altre volte da che era entrato nella mia vita, ma questa… sarebbe potuta essere l’ultima volta. La minaccia avrebbe potuto distruggere ogni cosa, a partire dalla felicità che avremmo forse potuto conoscere, se il futuro non fosse stato breve ed oscuro davanti a noi.
“Yato, tu lo senti?”, in qualche modo la mia voce non tremò e il mio sguardo si fissò nel suo. Lui prese un profondo respiro lasciando affiorare i caratteri della sua ascendenza paterna: gli occhi del colore del ghiaccio vagarono da me alla montagna oltre gli alberi, e annuì, “E’ potente. Più di qualsiasi altra cosa abbia mai incontrato”.
Silenziosamente lo ringraziai per il rispetto che mi mostrava nel dirmi la verità, per quanto difficile potesse essere. Tacque per qualche momento, i tratti sovrannaturali che recedevano lentamente.
“Hai mai avuto paura?”, nei suoi occhi colsi tanto il riflesso del timore quanto la vergogna che provava per esso, benché non vi fosse nulla di sbagliato nel provarlo. Impiegai un istante a raccogliere i pensieri, “Da sempre la gente del villaggio convive con la paura del demone. Io non faccio eccezione. Tuttavia… è come se essa avesse su di me meno potere di un tempo. Da quando ti ho conosciuto Yato… è come se fossi più forte contro di essa”, da quando avevo incrociato i suoi occhi e il mistero dell’amore si era impadronito della mia anima.
“Io penso che la paura sia un’alleata importante per un guerriero, per ognuno di noi. Essa ci dà la misura di ciò che non vogliamo perdere, di ciò che vogliamo difendere e di ciò che non siamo disposti a sacrificare”, non volevo perdere il villaggio, desideravo difendere i miei cari e non sarei mai stata disposta a sacrificare il mio amore.
Se solo avessi potuto…
Abbassai lo sguardo sulle mie mani, strette a pugno sopra le ginocchia, le nocche sbiancate per tutta la forza della mia disperazione. Gli occhi bruciavano di lacrime gelide che non sapevo quanto a lungo sarei riuscita a trattenere.
“Io non vorrei essere soltanto la custode della katana…”, la voce tremò di rabbia, dolore e frustrazione trattenuti a stento.
Se soltanto avessi potuto combattere..!
“No Kagura”, oltre le lacrime vidi le sue mani coprire le mie, oltre il freddo sentii il calore della sua stretta più intenso che mai. Sollevai lo sguardo sul suo viso, l’espressione fiera e gli occhi ardenti nell’elegante perfezione dei suoi tratti mi tolsero il respiro.
“Non lascerò che un simile peso ti opprima. Tu mi hai dato la forza di una consapevolezza che non avrei mai trovato da solo. Non sono mai stato così forte prima, ed è soltanto grazie a te”, strinse più  forte le mie mani, “Per te. Io affronterò la minaccia del demone e lo sconfiggerò. Con te sento di poter fare qualsiasi cosa”.
“Yato non…”, non avrei mai voluto che rischiasse tanto. Lui sorrise accarezzandomi il viso, “Ho la tua fiducia?”, annuii nella sua carezza, potevo sentire le lacrime scivolare lungo le guance, “Si… completamente”.
Mi abbracciò stretta finché le mie lacrime non si esaurirono. Allora alzai il viso a cercare i suoi occhi, Dei… come potevo essere tanto felice e tanto terrorizzata al tempo stesso?
“Stanerò il demone, lo sconfiggerò. Tu dovrai fare in modo che la gente del villaggio stia lontana dallo scontro, anche tu devi promettermi che lo farai perché sarà pericoloso, io stesso potrei esserlo e non voglio rischiare ti accada nulla”, non lasciò mai il mio sguardo e prima di continuare attese un cenno di assenso, “E quando tutto sarà finito sarò qui, ad aspettarti. Verrai..?”.
Il mio cuore non sarebbe mai stato grande abbastanza per un simile amore, nemmeno se avesse occupato tutto il mio corpo.
Annuii cingendogli il collo con le braccia, “Sempre..!”. Lo baciai e ogni altra cosa perse significato; il mondo iniziava e finiva in quel momento, circoscritto dal suo abbraccio, avvolto nel mio e suo respiro.
Un momento di perfezione che sarebbe stato eterno nel mio e nostro cuore.

Navigazione

[0] Indice dei post

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente

Vai alla versione completa