Seconda Sessione - Seconda Scena
Antefatto: Il ronin è stato trovato nel castello dal Bonzo. Questi, furioso, lo ha afferrato per i capelli e lo ha ferito con i suoi poteri, per poi scagliarlo fuori dalla finestra della torre nella quale si trovavano, fino a farlo rovinare nel fondo della rupe sulla quale il castello è costruito. Da quell’evento, per diversi giorni nessuno ha più avuto notizie dello straniero giunto al castello, ed alcuni hanno iniziato a pensare che se ne fosse infine andato. Solo Renji è stato testimone della violenza del Bonzo e non ne ha fatto parola con nessuno, per il timore che il Bonzo ha suscitato in lui
Alla ricerca di un segreto rivelato e di una presentazione, dadi permettendo.
Tutto il castello era in pieno fermento. Ogni uomo era impegnato nei preparativi per la festa della fertilità, molto cara all’Oni. Tutto il castello doveva apparire vivo, festoso, ricco e gioioso. Così voleva il demone.
Ognuno partecipava a quella corale messa in scena fingendo trasporto e genuino divertimento, ma in realtà, oltre il sottile velo dell’apparenza, là dove le luci delle lampade non rischiaravano perfettamente, si nascondevano tetre ombre di desolazione e sconforto; paura e rassegnazione.
Kaito era incaricato della guardia alla porta d’ingresso alla sala in cui si sarebbe svolta la parte principale della festa ed era grato per quel ruolo. Non avrebbe preso parte attiva ai festeggimenti, e questo non gli dispiaceva. Non era dell’umore giusto per partecipare ad un sontuoso banchetto, accompagnato da danzatori e musici impeccabili nella forma, ma piegati nell’animo e nella sostanza.
L’armatura tradizionale che avrebbe indossato, inoltre, era dotata di una maschera a viso intero che gli avrebbe evitato la spiacevole seccatura di vestire anche quella sera la sua faccia di circostanza, con il sorriso di felicità artificiale che l’Oni si aspettava da tutti.
Il bushi scendeva le scale con passo spedito, la sala sotterranea in cui erano custodite le preziose armature da cerimonia veniva aperta solo in rare occasioni e questa era una. Da giorni non vedeva più lo straniero e non aveva fatto altro che pensare a lui, a come si erano lasciati, a come era svenuto a causa del marchio che lo dominava. Avrebbe volentieri sacrificato anche uno dei suoi ricordi più cari, tra le poche cose realmente preziose che gli fossero rimaste, pur di avere l’occasione di rivedere il ronin e di scusarsi per la sua rudezza e deplorevole mancanza di controllo. Kaito capiva ora di aver commesso l’errore di affezionarsi dell’idea che aveva dello straniero e non di lui stesso per quello che realmente era.
Trovandosi di fronte alla pesante porta della sala d’armi, il suo volto si piegò per un istante nell’accenno di un sorriso. Contemplare la perfezione delle armature e delle armi custodite nel castello gli avrebbe recato sollievo, seppure temporaneo.
Entrando il freddo della stanza lo investì. Si trattava di una grande sala rettangolare, buia, dall’aria estremamente secca. Era pensata per conservare i preziosi oggetti in essa custoditi e raramente l’umidità vi si infiltrava. Avanzando nel buio, per prendere la torcia agganciata alla parete che avrebbe usato per l’illuminazione, inciampò in qualcosa di grosso ed ingombrante che sembrava un sacco abbandonato a terra. Allertato e preoccupato, portò immediatamente la mano all’elsa della sua katana, piegandosi per controllare da vicino di cosa si trattasse.
Kaito sentì la pelle d’oca addosso quando realizzò di avere davanti a sé il ronin: mezzo nudo, moribondo, freddo e tremante, ricoperto di sangue. Per il bushi quella vista fu come sentirsi ricoprire il petto di frecce impietose..
“Cosa ti è successo...? Cosa ci fai qui!?” Esclamò a mezza voce Kaito.
Il ronin rispose con voce flebile e confusa: le sue parole erano incomprensibili per l’altro samurai.
Kaito non rimase a pensarci troppo a lungo. Si tolse il prezioso kimono che indossava, esponendo lo shitagi ed il fundoshi che aveva messo per essere pronto a vestire l’armatura e lo avvolse intorno al corpo del ronin, ignorando i suoi deboli tentativi di resistenza.
I pensieri di Kaito si accavvallavano caotici l’uno sull’altro. Non capiva come il ronin fosse potuto finire lì dentro, né come si potesse essere ridotto in quelle condizioni. Il senso di gestione dell’emergenza, tuttavia, prevalse: il samurai si guardò rapidamente alle spalle, verso la porta aperta e sussurrò al ronin: “Sei gelido... Vado a procurarti qualcosa di caldo e qualcosa per farti accomodare”
La protesta in risposta del ronin era così debole e fragile che nel cuore di Kaito si agirarono svariati sentimenti che in quel momento il samurai non aveva tempo di elaborare, ma che aveva già vissuto una volta, quando qualcun altro cui teneva era davanti a lui morente.
“N-non a-andare via...”
“Non preoccuparti” replicò gentile, ma deciso Kaito: “tornerò subito. Non ti abbandonerò, ma hai bisogno di cure”.
Ignorando ogni altro segno di protesta, Kaito uscì dalla stanza così com’era, vestito solo del proprio abbigliamento intimo, e si diresse spedito verso le cucine, sperando di non incrociare il cuoco o qualcuno dei suoi sottoposti. Una volta dentro, fece incetta di pezze pulite ed asciugamani, mise in un grande secchio dell’acqua bollente e si fermò davanti alla credenza delle spezie e delle erbe. Un forte senso di frustrazione s’impadronì di lui quando si rese conto che non sapeva quali erbe prendere o come dar sollievo allo straniero, al di là dell’acqua calda. Il suo percorso da bushi, il suo interesse per la poesia e tutti i suoi sogni e ricordi da recluso non servivano a nulla e lui era lì, solo, impotente, a realizzare che lo straniero sarebbe potuto morire da un momento all’altro e le ultime parole che si erano detti sarebbero rimaste colme di ansia e fretta. Una fine indegna di qualunque samurai, per non parlare di qualcuno che Kaito considerava un amico.
Cercando di ingnorare le voci ed i sentimenti che gli riempivano la testa di rumore intollerabile, il samurai iniziò a passare nuovamente in rassegna tutte le credenze, nella speranza di trovare qualcosa che potesse essere di sollievo allo straniero, e finalmente trovò il tè. Ne rovesciò velocemente una moderata quantità in un piccolo contenitore, dentro al quale mise anche due piccole tazzine.
Appoggiò gli asciugamani sul secchio fece per andarsene quando si rese conto che un ragazzino, un inserviente, lo stava guardando dall’altra parte della cucina. Era immobile, con gli occhi sbarrati ed un evidente imbarazzo dipinto sul volto. Imbarazzo e confusione: aveva evidentemente riconosciuto il bushi, ma non si aspettava di vederlo mezzo nudo in cucina a rovistare tra le cose di Renji, il cuoco.
Una imprecazione morì tra i denti di Kaito, il quale si limitò a guardare con aria estremamente severa l’inserviente e gli sibilò un secco: “Tu non mi hai mai visto qui, chiaro?”, sicuro del fatto che la sua posizione nella gerarchia del castello avrebbe dato il peso della verità alla sua parola, e non a quella di un semplice sguattero di cucina.
Lanciato più velocemente possibile verso la stanza in cui aveva lasciato il ronin, Kaito lungo le scale fu fulminato dalla consapevolezza che aveva abbandonato il proprio daisho nella stanza delle armature, con lo straniero sofferente. La constatazione per lui fu un piccolo shock: da che aveva ricordo, nel castello non si era mai separato dalla sua anima (la katana) e dal suo onore (il wakizashi), se non in presenza dell’Oni o del Bonzo. Nonostante le parole piene di risentimento che gli aveva rivolto l’ultima volta che avevano discusso, evidentemente quell’uomo doveva avere smosso in lui qualcosa di più del senso di rispetto o amicizia. Questo solo pensiero turbava il bushi come un sasso lanciato nello stagno calmo: non aveva ora il tempo di comprendere quanto si sarebbero allargate le increspature sull’acqua e cosa avrebbero toccato.
Proseguendo nella sua corsa si rese conto anche che la sala delle armature non era il luogo adatto per prendersi cura dello straniero: portare umidità in quella stanza avrebbe potuto creare dei danni ai preziosi armamenti in essa contenuti e li avrebbe esposti inutilmente a chiunque si fosse recato laggiù a cercare Kaito. Il samurai s’impossessò quindi di una stanza lungo il percorso e dopo avervi lasciato ciò che si era procurato in cucina, andò a prendere il ronin.
Entrati nella stanza, Kaito fece accodmare come meglio poteva lo straniero sul tatami meno scomodo nella sala e cercò di bloccare la porta d’ingresso usando un piccolo armadio vuoto presente nella sala.
Velocemente rovesciò un po’ d’acqua calda nel contenitore in cui aveva messo le foglie di tè e le lasciò in infusione. Non cera alcuna ricerca della perfezione nei suoi gesti: solo fretta, frustrazione e preoccupazione. Kaito era teso, e non si curava di agire con il distacco, la freddezza e la perfezione che i suoi principi gli dettavano.
Con tutta la delicatezza di cui era capace, il samurai scostò il kimono dallo straniero e cercò di portare in evidenza le ferite e i grumi di sangue secco sulla sua pelle. Lentamente bagnò uno degli asciugamani con l’acqua calda ed iniziò a ripulire lo straniero, cercando al contempo di scaldarlo. Il ronin lo lasciava fare, con gli occhi socchiusi e tra i due per alcuni lunghi attimi ci fu solo silenzio, rotto dal rumore cristallino dell’acqua quando Kaito bagnava l’asciugamano.
Il samurai, infine, si fece coraggio, e parlò. “Non ti ho più visto. Temevo te ne fossi andato a causa di quello che ti ho detto. Mi dispiace...” S’interruppe per un breve istante, poi riprese, esitante: “Cosa ti ha ridotto così? Cosa ti è accaduto?”
Il ronin mosse la testa e le sue parole iniziarono lentamente ad avere un senso, non apparendo più come flebili e sconnessi lamenti.
“Kaito... T-tu credi c-che gli animali abbiano un'anima?”
Quella domanda soprese il bushi. Non se la aspettava. Decise comunque di assecondare il ronin e non gli rispose prima di aver riflettuto qualche istante, come se volesse soppesare le parole.
“Credo che i Kami si manifestino in ogni aspetto del creato, quindi sì. Credo che gli animali abbiano un'anima”, rispose infine.
Il ronin accennò quello che nel volto devastato dal dolore poteva leggersi come un accenno di sorriso, poi proseguì: “Bene... perché devo rivelarti una cosa. Mi dispiace di averti mentito, Kaito. Vi ho ingannati tutti. Ho cercato di essere come voi, ma non ci sono riuscito. Io non sono un ronin: sono un Kitsune, lo spirito di una volpe.”
Quella rivelazione colpì Kaito, ma il samurai non lo diede a vedere e non replicò. Il ronin iniziò lentamente a mostrare il suo vero aspetto: dalle spoglie mortali del vecchio che il samurai aveva conosciuto fino a quel momento, si alzava ora un giovane dai capelli rossicci ricoperto da una morbida peluria su dorso dal colore arancio scuro, tendente al marrone, con due grandi occhi di un color ambrato talmente chiaro da sembrare oro luccicante. Le sue mani avevano dita armoniose e lunghe, con terribili artigli affilati alle loro estremità. La bellezza di quell’essere lasciò il samurai senza fiato per alcuni brevi attimi che parverò trascorrere con la lentezza dell’eternità.
Esitante e pieno di ammirazione, Kaito sussurrò: ”Le... Le ferite non sono riuscite a deturpare o nascondere la tua bellezza” Con quelle parole una lacrima iniziò a scendere, lenta, sulla guancia del guerriero. Non c’era tristezza, rabbia o frustrazione. Non c’erano emozioni negative. C’erano solo tanta ammirazione, sollievo e qualcosa di indefinito, ma forte che teneva Kaito stretto per lo stomaco, fino a farlo stare male, ma che il samurai non riusciva a definire. Sorridendo commosso, continuò: “Davanti a me non vedo né una volpe, né un essere umano: vedo solo un'anima gentile. Splendida e gentile.”
Con delicatezza il ronin asciugò la lacrima di Kaito, facendo attenzione a non ferire l’uomo coi sui temibili artigli. Kaito non poteva dire se il Kitsune fosse solo incerto o forse a suo modo commosso, ma gli si scaldò profondamente il cuore quando capì che gli stava concedendo il privilegio di conoscere il suo vero nome,
“Nella foresta da cui provengo mi chiamano come colui che è stato concepito all'ombra di un pino, Kagematsu, nella vostra lingua.”
Solo in quel momento Kaito si rese conto che nella stanza, in effetti, aleggiava un sottile profumo di aghi di pino, lo stesso che aveva avvertito molte sere prima, quando con lo straniero aveva condiviso un momento di confidenza nella stanza dei kimono.
Kagematsu continuò: “Mi dispiace aver causato così tanto dolore a causa della mia incapacità di comprendervi. Ho provato ad essere come voi esseri umani, ma è difficile!” Sull'ultima parola Kaito percepì distintamente una nota di genuina frustrazione.
“Non scusarti, Kagematsu” lo interruppe Kaito. “Non ce n’è bisogno”.
“No, Kaito, c'è un'altra cosa che devo dirti.” Lo spirito della volte smise di parlare, distogliendo lo sguardo da Kaito. Con voce più grave riprese: “Io sono il figlio del Daimyo. La ragione per cui sono entrato qui con una falsa identità è che volevo capire cosa mi avrebbe aspettato alla morte di mio padre. Il Bonzo purtroppo mi ha scoperto e mi ha cacciato facendomi questo.”
La consapevolezza e il significato di quello che aveva sentito, investirono Kaito con la violenza di cavallo che carica il nemico nella battaglia. Nel breve scorrere di un attimo si sentì mancare la terra sotto i piedi ed il petto iniziò a fargli male, come se anche il suo cuore volesse gridare per la disperazione. Kaito guardava Kagematsu e per la prima volta da quando l’aveva conosciuto lo vedeva realmente per quello che era.
Improvvisamente Kaito si rivide anni prima, quando era ancora un ragazzino da poco diventato un vero bushi chinato sul corpo morente del suo amore, disperato e impotente, pregando con tutto se stesso i Kami di non lasciarlo solo coi suoi ricordi, di non strappargli via il suo cuore.
rivide se stesso mentre il Bonzo lo marchiava, sulla schiena, alla base del collo. Mentre fu costretto a giurare fedeltà all’Oni che diventò così il suo signore. Guardava Kagematsu con la dolorosa consapevolezza che non avrebbe potuto fare niente per lui. Kaito era un guerriero nel pieno delle proprie forze e nonostante questo non era in grado di fare qualcosa per Kagematsu. Tutto il suo coraggio non sarebbe servito a nulla. Il senso d’impotenza lo stava rodendo da dentro, come una tarma affamata decisa a consumare tutto il legno che la ospitava.
Le lacrime ormai scorrevano libere, la maschera del bushi rigoroso ed onorevole era in frantumi ai piedi del samurai, distrutta dalla prospettiva che anche quest’anima che per un attimo aveva sentito così vicina a sé gli sarebbe stata portata via.
“Io... Io... non posso fare nulla. Non posso salvarti. Io... sono impotente di fronte all'Oni”. Kaitò alzò gli occhi, cercando di incrociare lo sguardo del Kitsune. Era combattuto e pieno di tristezza, ma ancora non c’era traccia di rassegnazione. “Io non ho potere su di lui, nemmeno con tutta la mia forza di volontà potrei combatterlo.”
Kagematsu inclinò la testa e fissandolo coi suoi occhi luminosi e caldi sussurrò comprensivo: “Lo so... non preoccuparti. Lo so.”