IL PIACERE DELLE LACRIME
Sai cosa succede alle storie che non disturbano? La gente le dimentica.
Cpt. T. Brakko
Buongiorno.
Vorrei presentarmi. Io sono Ezio, un trent'enne qualunque, con un lavoro, una fidanzata e degli amici. A volte esco con loro per quattro chiacchiere e una birra (ma non quanto vorrei) e spesso gioco di ruolo con alcuni di essi. Mi piacerebbe parlarvi di come, a volte, mi sia capitato di provare emozioni normalmente considerate “negative” (rabbia, oppressione, disperazione, tristezza...) mentre giocavo di ruolo e di come, abbracciarle e, a volte, cercarle abbia migliorato sensibilmente il divertimento che traggo dalle mie partite.
Non esporrò grandi tesi o idee rivoluzionarie, non abbiate timore. Mi sforzerò piuttosto di parlarvi con semplicità e sincerità di quello che ho vissuto, provando a spiegarvi perché ora do il benvenuto a sensazioni che, normalmente, sarebbero antitetiche al concetto di gioco.
Vorrei iniziare la nostra chiacchierata raccontarvi una storia. E' piuttosto cruda e parla di guerra e sesso, vi avverto.
È la storia di Danuta Borowicz, detta Zeta. Zeta era una ragazzina di 17 anni, coinvolta nella sanguinosa e tragica rivolta di Varsavia nel 1944. Era poco più di una ragazzina, però ha combattuto a fianco degli adulti. Mentre faceva da palo per proteggere la sua squadra di partigiani, tutti ragazzini come lei, è stata catturata e stuprata da alcuni soldati tedeschi.
La cosa peggiore è che conosciamo qualcosa del suo privato: sappiamo, per esempio, che Zeta stava iniziando una relazione romantica con un suo compagno di squadra, Janusz “Elf” Macieck e che quel tragico evento ha distrutto totalmente la timida storia che stava nascendo tra i due ragazzi. Vedete, Zeta non aveva mai fatto sesso in vita sua, e lo stupro l'ha segnata più di tutto quanto ha visto durante i terribili mesi della Rivolta.
Ovviamente Zeta e Elf non sono mai esistiti, anche se avrebbero potuto.
Sono personaggi del gioco Gray Ranks, di Jason Morningstar, giocati rispettivamente da me e dalla mia amica Katia.
Gray Ranks è un gioco molto intenso e coinvolgente. Ti prende. Inizia piano, ciascun giocatore col proprio ragazzino coinvolto in quella che dovrebbe essere una rapida rivolta, non più di un paio di settimane e, lentamente e deliberatamente, ti trascina in basso, ti obbliga a conoscere e a dare tridimensionalità a quei nomi su una scheda. Quando la Rivolta si fa difficile e disperata tu ormai ci sei dentro e senti sulla tua pelle l'ansia, la disperazione e la paura dei protagonisti di quella tragica pagina di Storia.
Quando giocai Zeta successe proprio quello. Arrivammo, ad una scena, a raccontare dello stupro, e fu dura. Vi assicuro che fu dura.
A quel punto tutti al tavolo eravamo immedesimati nei nostri personaggi e io sentii distintamente la paura, la vergogna e il dolore di Danuta.
Cercai di uscirne.
Chiamai una scena di flashback in cui erano presenti lei e Janusz, alticci per aver diviso una bottiglia di vodka fortunosamente recuperata: “Vi prego, ragazzi, ditemi che almeno non era la sua prima volta”.
Giocammo la scena.
Risultò che quella sera, bloccati dall'inesperienza e dall'immaturità, Janusz e Danuta non combinarono nulla.
La prima esperienza sessuale di Danuta era stata uno stupro di gruppo eseguito dalla Wehrmacht.
Mi gelai.
Sentii la bocca dello stomaco chiudersi e le lacrime affiorare.
La mia mente voleva andarsene, voleva che non fosse mai successo, voleva che alla povera Danuta (e a Janusz) fosse risparmiato almeno questo, ma non poteva. Nello spazio dell'immaginazione condivisa dai giocatori quegli eventi erano ormai successi e non avremmo potuto negarli senza smettere di giocare.
Mi ribellavo a qualcosa contro cui non potevo fare nulla.
Era solo immaginazione, ma vi assicuro che fu brutta.
Quel pomeriggio stetti male, seriamente male, per un gioco.
Ricordo che quella volta mi chiesi seriamente chi me lo faceva fare di rimanere lì seduto. Avevo avuto una settimana pesante, volevo rilassarmi, volevo divertirmi, volevo stare bene, non subire quel genere di shock emotivo.
Chi me lo faceva fare?
Perché ho rinunciato al disimpegno e alla leggerezza tipicamente associati al momento del gioco?
Ho capito solo dopo che quello è stato l'esatto momento in cui Danuta e la sua storia sono diventate significative per me, a livello personale e intimo; significative di per se stesse, non come parte di un hobby più generico. In quel momento Danuta si è elevata al di sopra del minestrone di tutti i personaggi che avevo interpretato nel corso degli anni per diventare qualcosa di unico, un ricordo con una propria personalità. Non era “un personaggio”, era “Danuta, quella povera figlia”.
Fin qui, in realtà, niente di nuovo sotto il sole, niente che giustificherebbe la scrittura di questo articolo: una storia che da emozioni è più piacevole e concreta di una che non ne da.
Scontato.
Quello che è strano è la natura di queste emozioni: dolore, rabbia, odio. Tutte emozioni negative che, sul momento, non è stato piacevole provare e, se mi fossi fermato a quel livello, mi avrebbero rovinato il pomeriggio.
Qualcosa, però, non mi ha fatto fermare lì. Ho elaborato queste sensazioni, le ho analizzate e fatte mie, mi sono preso 10 minuti di pausa per ricompormi, e alla fine ho scoperto che mi stavo divertendo.
Ero emotivamente provato ma mi stavo divertendo. Volevo ricominciare a giocare, arrivare in fondo alla storia.
Non tanto per dare a Danuta una possibilità di rivalsa, sapevo che non ce ne sarebbero state, quanto per continuare a dare tridimensionalità alla vicenda.
Niente di tutto questo mi era mai successo provando sensazioni positive: gioia e allegria si comportano in maniera opposta; sono piacevoli sul momento, ma non mi hanno mai lasciato un segno perpetuo. Forse nessun gioco è ancora riuscito a veicolarmi vera gioia, profonda e inarrestabile, come invece è stata la tristezza di Gray Ranks.
Sono andato avanti su questa strada. Ho cercato di nuovo, coscientemente, questo tipo di sensazioni e ogni volta che le ho provate ho sentito un senso di appagamento unico e inimitabile, sensazioni non replicabili usando giochi più leggeri, intesi per avere un momento di svago e divagazione.
Le emozioni che di solito sono considerate negative hanno un modo tutto loro di penetrare le mie difese e toccarmi nel più profondo dell'animo.
Non potevo rimanere indifferente di fronte alla sorte di Danuta e agli altri ragazzi della nostra squadra di Ranghi Grigi. Il solo pensare di dire quelle cose mi disturbava e mi obbligava a rifletterci, a prendere seriamente quello che stavo per fare, considerandolo e valutandolo da tutti i punti di vista.
Anche solo l'istintiva necessità di razionalizzare la tragedia a cui stavo assistendo mi trascinava nella vicenda, le dava spessore e importanza.
Sul momento è stato terribile e sgradevole, poi ho ingoiato il rospo e sono andato avanti, ho bevuto la medicina amara fino in fondo e quello che ne è uscito è stato grande.
Mi sono sentito costretto a condividere la sofferenza di un'altra persona, e questo mi ha fatto crescere.
Ora sarò melodrammatico e, forse, un pelino assurdo: sono contento di aver accompagnato Danuta fino alla fine. Ormai era abbastanza viva nella mia immaginazione che mi è sembrato solo giusto che qualcuno, io, condividesse il suo dolore.
Condividere il dolore, ecco la chiave. Condividere la gioia e la felicità è semplice, viene naturale e istintivo. Condividere il dolore non così tanto, bisogna fare uno sforzo cosciente e in questo caso il “gioco”, la narrazione, può diventare uno strumento estremamente proficuo per indurti a farlo e per costringerti, attraverso la condivisione e la comprensione del disagio altrui, a crescere personalmente e socialmente.
Lacrime, si, ma benvenute e utili.
Fin'ora ho parlato dei personaggi di Gray Ranks come se fossero persone reali. In un certo senso lo sono ma, in un senso ancora più preciso, parlando di loro parlo dei giocatori che li guidavano.
Come ho detto poco fa una parte importante nello sfruttare le emozioni negative è la condivisione.
Le persone con cui ho giocato a Gray Ranks sono miei amici, non semplici conoscenti con cui mi incontro ogni tanto per tirare qualche dado. Mi fido di loro abbastanza da essere onesto e aperto nei miei sentimenti. Una di loro è addirittura la mia fidanzata.
Con loro, cioè con Lavinia, Luca e Katia, ho giocato anche una bella partita a La Mia Vita col Padrone, di P. Czege.
Anche La Mia Vita col Padrone, come Gray Ranks, è un gioco che vuole essere emotivamente pesante. Parla di storie di rivalsa e riscossa di mostruosi Servi verso il loro Padrone ancora più mostruoso e inumano. Quasimodo e Frollo, per capirci.
Il gioco induce a vivere molto profondamente il disagio del proprio personaggio soggetto agli ordini inumani del Padrone.
E' un gioco che ho giocato abbastanza, ma quando l'ho giocato con quei tre si sono raggiunti punti di orrore piuttosto disturbanti. Devo ammetterlo: alla fine della prima sessione stavo già spingendo sulle meccaniche del gioco per portare a conclusione la partita e nell'ultima sessione ci siamo tutti rilassati un po', abbassando i toni e giocando in maniera più leggera: non ce la facevamo più a reggere l'intensità delle due sessioni precedenti.
Nel corso della partita ci sono state scene in cui, come richiesto dal gioco, raccontammo qualcosa che, per noi, era orrorifico, disgustoso, terribile.
Fummo bravi.
Fummo troppo bravi.
Io parlai di un bambino picchiato dalla madre, Katia parlò di infanticidi, Lavinia di bambini venduti al Padrone.
Provammo, tutti, un senso di disgusto, una forte repulsione. In particolare posso dirvi che io, in un certo momento, mi sentivo come se mi stessi osservando dall'esterno. Ascoltavo la mia voce che descriveva una madre che picchiava il figlio e pensavo: “No, basta... che schifo, fermati...” senza riuscire a farlo. Sul momento fu una sensazione decisamente sgradevole e repulsiva.
Di nuovo, la accettai. Non me ne ritirai, tenni la mano sul fuoco, bevvi fino in fondo quella bevanda vomitevole, turandomi il naso e fidandomi dei miei amici.
In quei momenti ciascuno di noi era a disagio, ciascuno di noi stava male, anche Luca, che aveva la parte del Padrone. Stavamo parlando delle nostre paure più recondite, delle nostre sensazioni più nascoste.
Solitamente tendiamo a mostrare all'esterno ciò che di abbiamo di positivo o, almeno, un aspetto di noi che desideriamo rendere pubblico. L'orrore e le altre sensazioni negative sono spesso escluse da questa facciata, non è semplice parlare a qualcuno dei propri timori profondi, per esempio.
Quella volta, giocando a La Mia Vita col Padrone successe invece proprio quello.
Ciascuno di noi si è fidato degli altri e si è gettato, senza reti di sicurezza. Ha deciso di condividere con gli altri una parte profonda della propria anima. Ha deciso, in particolare, di mostrare agli altri una propria vulnerabilità che, di sicuro, non mostra abitualmente.
In quel momento un legame già presente si è rafforzato. Non sarebbe stato possibile arrivare a questo risultato se non ci fossimo fidati già gli uni degli altri, ma questo iniziale slancio di fiducia è stato amplificato enormemente dal condividere un momento di disagio emotivo piuttosto intenso.
Alla fine la partita a La Mia Vita col Padroneè stata un'esperienza estremamente positiva. I momenti sgradevoli al suo interno hanno portato qualcosa di prezioso: condivisione.
Con la leggerezza e il disimpegno questo non mi era mai accaduto, così come non mi è ancora accaduto con emozioni più positive.
Credo che sia un po' come quel vecchio trucco da seminario per manager: metti un gruppo di persone in una situazione di crisi in cui sono costrette a sorreggersi l'un l'altra o a cadere assieme e vedrai nascere i legami del gruppo.
Per anni ho cercato amicizia e comprensione profonda tra le persone con cui giocavo e raramente l'ho trovata. Era strano: mi trovavo ogni settimana per giocare con le stesse persone, eppure la creazione di un legame non era per nulla scontata.
Ora inizio a capire perché. La nostra ricerca e il nostro gioco si limitava al passare il tempo, al disimpegno e allo scherzo.
Per quanto queste cose siano importanti non è possibile creare legami duraturi basandosi solo su questi, e io ho sempre cercato legami duraturi fra le persone con cui giocavo.
Accettare di affrontare, nello spazio settimanale dedicato al gioco emozioni forti e sbilancianti ha portato invece alla creazione di questo tipo di legami. Offrendo il mio disagio agli altri ho potuto constatare come questi fossero pronti a sostenermi. Non l'avrei mai saputo se non avessi abbracciato il torcibudella emotivo che il gioco mi offriva, se mi fossi mantenuto sul sicuro e luminoso sentiero della leggerezza e del disimpegno.
Mi sono lasciato cadere all'indietro e dietro c'era qualcuno pronto ad afferrarmi. L'iniziale senso di paura e vertigine è stato sostituito da una calda sensazione di fiducia e amicizia, venendone ampiamente ripagato.
Credo comunque che sia importante, a questo punto, specificare bene una cosa: quelle che fin qui ho chiamato emozioni negative non sono valori assoluti, da ricercare aprioristicamente nel proprio gioco. Sono strumenti da usare per determinati fini, non un fine esse stesse. Il disagio non deve essere fine a sé stesso, quella è la strada del masochista o del narcisista, che porta solo a chiudersi in sé stessi e a una distorta “vanità del dolore”.
Diventa quindi importante sapersi liberare di queste sensazioni al momento giusto, una volta che hanno esaurito il loro scopo: una volta accompagnata Danuta alla sua (tragica) fine l'ho salutata e ho accettato la soddisfazione che mi dava aver contribuito ad una storia così intensa; una volta chiuso La Mia Vita col Padrone mi sono goduto fino in fondo il senso di cameratismo che quei tre sabati ci avevano dato.
Un gioco esemplare in questo tipo di meccanismo è sicuramente La Mia Vita col Padrone, che fa della morte del Padrone per mano dei personaggi un momento di catarsi che diventa la pietra di volta che sorregge l'intero gioco, ma ho trovato una soddisfazione altrettanto grande giocando Annalise, di N. D. Paoletta.
Annalise parla di vampiri, in senso lato. Parla di una forza mostruosa che si imprime sulla vita dei personaggi, distruggendola poco a poco. Il gioco può essere ambientato ovunque, dal classico castello nei Carpazi allo spazio profondo.
Dato quanto vi ho raccontato fin qui di come giochiamo io, Luca, Lavinia e Katia vi sarà facile capire la ragione dell'ambientazione che scegliemmo: Auschwitz, Inverno 1944. Il Vampiro, alla fine, risultò essere “La Soluzione Finale”, che lentamente faceva brandelli dell'umanità di coloro che ne venivano coinvolti, carnefici compresi.
Anche se Annalise è il gioco che amo meno tra quelli che ho citato fin qui la partita fu parecchio intensa, un reale susseguirsi di efferatezze.
Davvero, quella volta esplorammo veramente a fondo le bassezze possibili all'animo umano, fin dove ci si può spingere per perseguire i propri desideri egoisti o evitare di affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
Io giocavo il Caporale Hans Beker, un giovane SS idealista che, nonostante tutto, aveva ancora un cuore e una coscienza e che venne etichettato immediatamente come “quello tenero, da rompere”.
Il suo “cuore” venne decisamente corrotto e ne emerse un personaggio che, pur di non ammettere la propria pochezza, era disposto a sacrificare ogni cosa: amici, ideali, onestà.
Alla fine della partita Hans si ritrovò sul banco degli imputati a Norimberga, condannato a morte per i suoi crimini (nel frattempo era diventato direttore del Campo) e le sue ultime parole, trascinato fuori dall'aula, furono un vigliacco: “... ma io ho solo eseguito degli ordini...”
È importante notare che l'epilogo è stato narrato completamente da me, senza input da parte degli altri o dalle meccaniche del gioco. Con Hans ho fatto il contrario di quello che feci con Danuta: invece di accompagnarlo per mano nel suo ultimo viaggio l'ho abbandonato a se stesso, rimanendomene su una metaforica poltrona a guardare il karma fare il suo corso.
È successo qualcosa di simile anche ne La Mia Vita col Padrone, in cui Lavinia e Katia, alla fine, hanno fatto morire i loro Servitori per ottenerne la redenzione.
In quei momenti tutto il disagio provato e auto-inflitto nel corso della partita è stato incanalato e sfogato in un un'unica ondata di liberazione.
Magari può sembrare contro-intuitivo, il procurarsi emozioni sgradevoli solo perché liberandocene proveremo sollievo, ma se ci pensate bene è esattamente quello che facciamo andando a vedere un film drammatico. È strano, dato che prima non provavamo nessuna di quelle sensazioni di cui ora ci sentiamo liberi: Logicamente dovremmo tornare al punto di partenza, eppure finiamo per stare meglio di quando abbiamo iniziato.
La mente umana funziona in modo strano.
Imparare a non rifiutare a priori il tipo di emozioni di cui parlo in questo articolo mi ha dato davvero tanto, in termini di gioco e di crescita personale. Le storie che ho iniziato a raccontare con i miei amici sono diventate più profonde e più concrete, lasciano il segno nella memoria, non vanno perse come bagatelle. Il rapporto con le persone che ho attorno si è fatto più profondo e fiducioso e la soddisfazione che traggo dalle mie partite è stata esponenziale. Ora, attraverso il mio media preferito, posso godere di un'ulteriore segmento della sfera umana che prima, giocando per la leggerezza e il disimpegno, mi perdevo.
Mi rimane ancora una forte curiosità, però. In linea teorica le emozioni “positive” sono altrettanto forti di quelle “negative”. Di sicuro possono essere altrettanto sbilancianti: una forte gioia, un amore o un sentimento d'amicizia lasciano il segno tanto quanto un dolore o un odio.
Come ho detto prima non sono ancora riuscito a trovare un gioco che spinga realmente su quelle sensazioni ma spero che esista da qualche parte e, un giorno, spero di poterlo giocare.
Non vedo l'ora di poter analizzare veramente a fondo anche quell'aspetto della condizione umana, non vedo l'ora che un gioco lasci un'impronta bruciante di gioia nella mia memoria.
Una cosa è certa: non tornerò più a giocare lievemente, senza permettere al gioco di disturbarmi e scuotermi.
Voglio impegnarmi, voglio affrontare a viso aperto quello che le storie portano con loro.
Voglio continuare ad emozionarmi.
Per approfondire
Burneko, Jesse,Gioca con Passione - i rischi sociali della creazione di storie, in Appassionate – pensieri e teorie per giocare col cuore, a cura di Claudia Cangini e Michele Gelli, pp. 9-14