Il periodo Edo - 3
L'ordinamento formale della società era in quattro grandi "classi": al di sopra di tutti i bushi (samurai), poi i contadini (al quale veniva riconosciuto un valore "morale" ben maggiore della loro importanza reale), gli artigiani e i mercanti (moralisticamente considerati "improduttivi", persone che spostano ricchezza anziché crearne). Facevano eccezione a questa piramide i nobili della corte imperiale, alcune professioni "speciali" (come quella dei medici)... e poi c'erano, al di sotto di tutti, i miserabili "fuoricasta": mendicanti, vagabondi, attori, musicanti, prostitute e i praticanti di alcuni mestieri "ritualmente impuri".
I contadini erano praticamente vincolati alla terra che coltivavano: senza permessi speciali, non potevano lasciare il loro villaggio natio. Menavano un'esistenza grama e la maggior parte del loro raccolto veniva incamerato dalle autorità come imposte (e questa tassazione in natura del prodotto agricolo costituiva la base di tutto il sistema economico).
Gli artigiani erano presenti sia nelle campagne, sia nelle città, anche secondo il loro specifico mestiere, e con i mercanti rappresentavano il grosso della popolazione urbana.
Nelle città si conduceva una vita per molti versi migliore di quella rurale, sia perché vi si trovavano lussi grandi e piccoli e divertimenti un po' per tutte le tasche, sia perché erano gli unici luoghi ove esisteva un minimo barlume di mobilità sociale. Pertanto l'abbandono delle campagne da parte dei contadini più poveri o in annate cattive, seppur vietato, era frequente: queste persone andavano ad infoltire i ranghi degli operai non specializzati, dei facchini e di simili lavoratori.
La classe dei bushi, che stava all'apice della teorica piramide, era in realtà assai eterogenea, comprendendo sia lo Shôgun stesso e i Daimyô, signori e padroni del paese, con le loro famiglie, sia militari di rango via via più umile, fino a semplici sorveglianti la cui vita era frugale quanto quella dei contadini, alle loro mogli e alla loro prole. Privilegio esclusivo della classe era quello di portare le armi, e a prova di questo tutti i bushi maschi adulti erano armati del daisho (cioè delle due spade) che simboleggiava anche il loro formale diritto di vita e di morte sugli appartenenti alle altre classi. In pratica, l'esecuzione sommaria di contadini o servi era praticata solo per ordine dei bushi di rango più alto e solo in particolari situazioni percepite come gravi oltraggi, ma era comunque un fatto reale della vita.
Tutti i bushi erano in pratica "dipendenti statali", o altrimenti potremmo dire "vassalli" di un signore — lo Shôgun o uno dei Daimyô — il quale garantiva ai propri sottoposti il sostentamento. Shôgun e Daimyô incameravano infatti il riso coltivato entro i propri rispettivi domini, e poi lo ridistribuivano come uno "stipendio" annuale ai propri diretti seguaci, in ragione del loro rango. Ciascuno di questi bushi aveva a propria volta dei seguaci, fra i quali suddivideva la propria quota di riso, e così via fino ai ranghi più bassi della classe sociale, il cui stipendio-riso bastava appena a loro stessi — o al massimo alla consorte e alla prole. Con questo sistema, il rango, riflesso dell'entità dello stipendio, era espressione diretta del numero di uomini che si supponeva quel dato bushi avesse o potesse avere sotto di sé.
Il sistema degli stipendi in riso si rivelò tuttavia, sul lungo periodo, un tallone d'Achille dello shogunato: era un impianto adeguato alla situazione iniziale del periodo Edo, quando i Tokugawa avevano appena preso il potere, ma proprio in quanto fondato su pagamenti in natura non era in grado di evolversi con i tempi. Un conto erano i soldati di un castello in una regione rurale, ma con il passare dei decenni sempre più bushi, a partire proprio dai più importanti, vollero e in certi casi dovettero trasferirsi nelle città; e le città si reggevano su un'economia monetaria: quando la moglie di un guerriero voleva un vestito nuovo, quando vassalli e soldati necessitavano di nuovi equipaggiamenti, quando la dimora della famiglia andava ampliata, per tutte queste transazioni non erano sacchi di riso a passare di mano, bensì moneta metallica (d'oro a Edo, d'argento nelle altre città principali)! La vera base dell'economia, insomma, finì per essere non nel riso, ma nei mercanti di riso, i quali agivano come veri e propri banchieri, non solo cambiando lo stipendio dei bushi in denaro contante, ma spesso anche anticipando tale denaro contro l'impegnativa degli stipendi in riso futuri. Col passare del tempo, però, come ci si potrebbe aspettare, il riso andò incontro a una svalutazione, e non adeguandosi inoltre gli stipendi ufficiali al tasso reale di inflazione i bushi (o almeno la maggior parte di loro) divennero progressivamente più poveri.
Anche nelle loro funzioni, in fondo, i bushi erano snaturati: nati come classe guerriera e ascesi al potere in quanto tale, vivevano ora — come conseguenza diretta del proprio successo — in un'era di pace, nella quale le le loro spade e archi trovavano occasionale impiego solo per sopprimere qualche rara rivolta contadina. Infatti, solo una frazione di loro avevano incarichi di natura in qualche modo "militare" (incarichi, cioè, di sorveglianza o di mantenimento dell'ordine pubblico, incluse per esempio le funzioni di polizia). Molti bushi furono invece impiegati dal regime Tokugawa come funzionari e burocrati, mansioni realmente necessarie al funzionamento dello stato a ogni livello. Dovettero, insomma, maneggiare più il pennello che la spada, nonostante che gran parte del loro curriculum formativo fosse ancora, per tradizione, dedicata alle arti marziali. Vivevano, in effetti, in uno stato di costante "schizofrenia", essendo guerrieri che non combattevano: una classe di individui addestrati per essere guerrieri, mentalmente impostati per essere guerrieri, il cui condizionamento militare all'ubbidienza era volto quasi sempre a mansioni civili. Una fortissima tradizione di violenza correva nel sangue dei samurai — persone abituate da secoli a riparare ogni mancanza con lo spargimento di sangue, proprio o altrui — ma nel presente dell'epoca Edo essa doveva essere costantemente imbrigliata dal regime, e spesso e volentieri l'unico sbocco per la violenza era in quella rivolta a se stessi: quando cioè un bushi dissidente, o colpevole di un errore nello svolgimento dei propri compiti, veniva "invitato" dalle autorità a darsi la morte, unica fine "onorevole".
Formalmente, insomma, il paese era dei bushi, ma nella pratica il periodo Edo fu spesso e volentieri il periodo dei mercanti — la classe ritenuta "moralmente" più abietta, ma in possesso delle maggiori fortune. Non a caso furono le città, e non le campagne, le maggiori produttrici di cultura, e anche di cultura innovativa: le molte invenzioni artistiche del periodo Edo, spesso motivate dal desiderio di divertimento dei ricchi mercanti o della popolazione urbana tutta, spesso esse stesse imprese commerciali in sfrenata concorrenza, e quasi sempre animate da un chiassoso gusto popolare, costituiscono i pilastri fondamentali della cultura giapponese come oggi noi la conosciamo. Al mondo urbano di questo periodo dobbiamo infatti il teatro Kabuki, il teatro delle marionette, gran parte della musica oggi ritenuta "tradizionale", le stampe policrome che tanto hanno influenzato l'arte occidentale, moltissime tendenze dell'architettura e delle arti applicate, dell'arte culinaria, della poesia.