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[INC'10] The Mountain Witch - LETTURA OBBLIGATORIA
Rafu:
Sfondo storico - 3
Dalla "guerra civile" tra i due clan uscì vincitore Yoritomo,
capofamiglia dei Minamoto, con il mandato dell'Imperatore per
istituire un proprio "governo". Egli ne stabilirà la sede a Kamakura,
località molto lontana dalla capitale, per non essere influenzato
nell'attività politica dagli intrighi di corte e dalle rivalità
familiari dei nobili. Questo evento segna l'inizio (nel 1185 o 1192)
dell'EPOCA KAMAKURA.
Quello di Yoritomo è il primo BAKUFU, cioè "governo dei bushi",
un'istituzione che si riproporrà per gran parte della storia
giapponese. Il Bakufu esiste sempre A FIANCO della corte imperiale di
Heian/Kyôto, nonostante che ne renda l'autorità praticamente
irrilevante (al di fuori della capitale e degli affari personali dei
nobili), e formalmente deriva la propria autorità da una nomina da
parte del Tennô. Si tratta di una situazione simile al ruolo del Re
d'Italia rispetto alla dittatura di Mussolini, in un certo senso.
Secoli dopo, gli europei scambieranno per "Imperatore" il capo del
Bakufu e vedranno invece il Tennô come "una sorta di Papa", cioè
un'autorità solo morale e religiosa con un'influenza distante sulla
politica.
La massima carica del Bakufu fu denominata SHÔGUN (che potremmo
rendere, grossomodo, come "generalissimo"), e in linea di massima fu
quasi sempre una carica ereditaria. Da qui in poi, comunque, la storia
giapponese vedrà molte più dispute per la successione dello Shôgun che
non per il trono imperiale, posizione in genere svuotata di potere
fino ad essere quasi solo una formalità.
Lo Shôgun di Kamakura era tuttavia, nella pratica, il capo di una
grande coalizione di capi guerrieri, domati con la forza da Yoritomo,
ma la coalizione si fece nel tempo sempre più lasca. Nella loro spinta
centrifuga, i "samurai" erano estremamente simili alla nobiltà europea
medievale, legati al pezzetto di terra su cui erano nati, alle proprie
mura e alle proprie spade, ai propri contadini e servi. Dopo la
"vittoria senza bottino" contro i tentativi d'invasione dei Mongoli
(1274 e 1281: in entrambi i casi, la flotta del Khan fu devastata da
tifoni, dando inizio alla credenza nel "Vento Divino" [KAMIKAZE] che
proteggerebbe il Giappone), questioni di ordine principalmente
economico portarono nel 1333 alla caduta del Bakufu, che non aveva più
controllo sulla propria "base".
Gli succedette un secondo "shogunato", quello di MUROMACHI, che a
differenza del precedente stabilì la propria sede a Kyôto e quindi a
stretto contatto con la corte del Tennô. Nell'epoca Muromachi, in
pratica, il Bakufu seguì il destino della corte, diventando
un'autorità distante e quasi fantasma, con ben poco potere effettivo.
Ma anche così i bushi erano la classe sociale che deteneva il vero
potere politico nel paese, non più in maniera centralizzata (nella
figura dello Shôgun), ma in una forma decentrata che in una qualche
maniera ricorda ancora una volta l'Europa: non a caso i veri potenti
di questa epoca, i DAIMYÔ, sono spesso chiamati "signori feudali" o
con altri appellativi simili.
Chi erano, quindi, questi bushi? Di certo una classe sociale
organizzata su molti livelli. In testa a tutti lo Shôgun, "re" del
Giappone", e i Daimyô, "signori" che dominavano su territori più o
meno vasti e possedevano uno o più CASTELLI. Ciascun Daimyô aveva
sotto di sé varie famiglie di "vassalli", comandanti militari che gli
erano fedeli in cambio di benefici (residenze, terre, un vitalizio), e
questi avevano altri uomini sotto di sé, in una struttura piramidale
che scendeva fino ai sergenti di fanteria e alle umili guardie - tutte
posizioni che erano, almeno nominalmente, ereditarie. Formavano una
classe sociale tendenzialmente chiusa, grazie al fatto che i bushi si
sposavano (quasi esclusivamente) con figlie di bushi.
Va ricordato, comunque, che solo i ranghi più alti dei "samurai"
possedevano terre, palazzi e castelli, mentre la maggior parte erano
per tutta la vita guerrieri senza terra stanziati nelle caserme che
circondavano le dimore dei loro signori. Possedevano armi e, a volte,
cavalli, e potevano avere dei servitori; ma erano solo i loro signori
a riscuotere il frutto del lavoro dei contadini e quindi a elargire di
che vivere ai propri vassalli. Già in questo si scorgono le basi di un
"culto" della fedeltà al signore, di una morale della "lealtà sopra
ogni cosa" che divenne il centro della cultura di classe dei bushi.
Come "esclusivisti" del mestiere delle armi nella società giapponese,
inoltre, queste persone si caratterizzavano per la facilità nel
togliere (e nel togliersi!) la vita. Abbiamo tutti sentito parlare
dell'importanza che aveva per i samurai il dare la vita per il proprio
signore, o di come nella sconfitta preferissero spesso una morte
"onorevole" all'ignominia di essere presi prigionieri (con il rischio
di rivelare poi, in prigionia o sotto tortura, segreti militari
utilizzabili dal nemico contro la propria fazione). La morte
"onorevole" era in battaglia, oppure ce la si procurava tramite uno
specifico rituale di suicidio: il SEPPUKU, studiato per essere
estremamente lento e doloroso e quindi prova di grande forza e
stoicismo, che consisteva nello squarciarsi il ventre (hara-kiri,
"taglio della pancia", termine "basso" usato a volte per l'intero
rituale) con un pugnale o altra arma da lato (tipicamente la spada
corta WAKIZASHI) e lasciarsi morire per sanguinamento mantenendosi
seduti sui talloni in maniera perfettamente composta; ove possibile un
aiutante "graziava" il valoroso suicida non appena compiuto il taglio
del ventre, decapitandolo con un singolo colpo di spada portato da
dietro le spalle.
Rafu:
Sfondo storico - 4
La seconda parte dell'epoca Muromachi è nota agli storici (con una
citazione dalla storia cinese) come PERIODO SENGOKU (1467 - 1600
circa), ovvero "del paese in guerra", perché i Daimyô, agendo ormai
come sovrani indipendenti, si facevano guerra fra loro per le ragioni
più disparate -- una situazione che dovrebbe esserci familiare, perché
è pressoché identica a quella dell'Italia rinascimentale sotto le
signorie (anche nell'esistenza di autorità superiori "teoriche" ma
irrilevanti ai fini dei conflitti, come l'impero e il papato, o nel
caso del Giappone la corte imperiale e il Bakufu).
È ricordata come una fase storica terribile e sanguinosa (anche grazie
alla propaganda di epoca Edo, in realtà!), ma fu anche un momento di
grande vitalità culturale. Alcune grandi città portuali si diedero
istituzioni proprie per governarsi in maniera indipendente dai Daimyô,
per esempio, e maggiore che in ogni altra epoca della storia
giapponese fu la mobilità sociale (caratteristica di questa epoca è
per esempio la classe sociale degli ASHIGARU, o "fanti", che erano a
metà strada tra contadini e samurai).
Nel Cinquecento giunsero in Giappone missionari gesuiti, mercanti
portoghesi e spagnoli, e alcuni viaggiatori europei descrivono la
civiltà e i costumi del paese con parole decisamente lusinghiere. In
quest'epoca si diffonde in Giappone il cristianesimo, con conversioni
numerose ed eccellenti (perfino alcuni Daimyô, specialmente giù nel
Kyûshû). Il contatto con l'estero porta nuove colture (la patata
dolce, il tabacco...) che influenzeranno la vita materiale, nuove
parole e anche nuove armi. Col famoso episodio dei naufraghi
portoghesi di Tanegashima (1543), infatti, i giapponesi entrarono in
possesso dell'ARCHIBUGIO A MICCIA, che impararono a costruire
autonomamente e anzi perfezionarono (si dice che nell'ambito della
tecnologia delle armi a miccia i massimi livelli siano stati raggiunti
proprio dagli artigiani giapponesi).
L'archibugio fu anche il colpo di grazia che rese definitivamente
obsoleti gli arcieri a cavallo. Sui campi di battaglia dell'epoca
Sengoku, i "samurai" e i loro soldati ashigaru si battevano
soprattutto con lance (YARI) di varie fogge e dimensioni, adatte alle
cariche di cavalleria come alle formazioni di fanteria che dovevano
contrastarle, mentre la katana si evolveva dall'antica tachi dei
cavalieri alla UCHIGATANA, più corta e più dritta, più rapida da
estrarre dal cinturone di un fante.
Dalle guerre emersero uno dopo l'altro tre grandi figure di
dominatori: NOBUNAGA, HIDEYOSHI e IEYASU.
Oda Nobunaga era un Daimyô "minore" che covava il grande sogno di
riunificare sotto di sé l'intero Giappone. Largamente riconosciuto
come un genio della tattica militare, oltre che individualmente
soldato valorosissimo, la sua più grande capacità fu forse il
riconoscere le potenzialità dell'archibugio e saperle impiegare al
meglio; i suoi archibugieri, in combinazione con espedienti
spregiudicati (e, secondo alcuni, "disonorevoli") gli assicurarono
molte vittorie. Nobunaga depose l'ultimo Shôgun del Muromachi Bakufu,
intrattenne rapporti vantaggiosi con gli Europei, contrastò lo
strapotere dei templi buddhisti (che in epoca Sengoku erano vere e
proprie fortezze con i propri eserciti, spesso dediti al saccheggio)
col gesto simbolico di dare alle fiamme nel 1571 uno dei maggior
templi del paese, e soffocò nel sangue le rivolte agrarie di
ispirazione buddhista che imperversavano ovunque. Era quasi riuscito a
raggiungere il proprio scopo quando morì, nel 1582, assassinato da un
vassallo traditore.
Gli successe Toyotomi Hideyoshi, avventuriero di umilissimi natali (un
ashigaru, neppure un bushi!) che era stato il braccio destro di
Nobunaga durante la maggior delle sue conquiste. Hideyoshi riuscì
praticamente a unificare il paese, sconfiggendo sul campo gli ultimi
oppositori e riuscendo a guadagnarsi il favore della corte imperiale.
A questo punto si insediò praticamente come "dittatore" del Giappone,
e il suo breve "regno" si caratterizzò per eccessi e stravaganze - fra
cui il tentativo disastrosamente fallito di invadere la Cina passando
attraverso la Corea! I suoi biografi stanno ancora oggi dibattendo se
fu un genio straordinario oppure un completo pazzo.*
(* Tazio "Suna" Bettin, che è un suo fan, propende per la prima
ipotesi; io, che sono sono pro-Nobunaga, tendenzialmente per la
seconda.)
Morto Hideyoshi nel 1598, scoppiarono nuove lotte tra i suoi
fedelissimi e i suoi oppositori. Ne uscì vincitore il già anziano
Tokugawa Ieyasu (passato alla storia come "il vecchio volpone", per
aver saputo pazientemente attendere l'uscita di scena dei propri
rivali), Daimyô dell'oscura regione di Edo, che nella battaglia di
Sekigahara (1600) ottenne una schiacciante vittoria sulla coalizione
rivale. A questo punto ogni singolo Daimyô del Giappone era o morto, o
aveva giurato fedeltà a Tokugawa.
Rafu:
Il periodo Edo - 1
Eccoci finalmente al periodo in cui è ambientato il gioco, periodo che si fa iniziare nel 1605 (o nel 1600) e si considera concluso con il 1868. Su quale parte del periodo scegliere esattamente per ambientarci il gioco si potrebbe discutere a lungo (con diversi pro e diversi contro), ma in realtà non occorre specificarlo, o se vogliamo specificarlo... trovo che "un momento imprecisato del Settecento" sia ottimo. Molto versatile.
Nel 1605 Tokugawa Ieyasu, ormai di fatto il signore incontrastato dell'intero Giappone, fonda lo "shogunato" Tokugawa. Essendo lui già un uomo molto anziano, il suo "regno" come shôgun non durerà che per pochi anni, ma in quegli anni porrà tutte le basi per una solidissima "dinastia": i figli e i nipoti di Ieyasu non ebbero particolare talento come uomini politici, ma grazie all'opera del loro illustre capostipite la "dinastia" Tokugawa rimase egemone per oltre due secoli e mezzo.
Con una mossa che riecheggia quella compiuta secoli prima da Minamoto-no Yoritomo, Ieyasu stabilì la sede del nuovo bakufu nel proprio castello di Edo, nel Giappone orientale, piuttosto lontano dalla capitale imperiale di Kyôto. Proprio questa è la ragione per cui chiamiamo "periodo Edo" quello dello shogunato Tokugawa.
Ieyasu ordinò l'ampliamento del castello di Edo, che divenne gigantesco, mentre i villaggi che lo circondavano si trasformarono in una grande città. Edo fu una delle massime metropoli della prima età moderna, nel XVIII secolo popolosa quanto e forse più di Londra, ed è il nucleo originario della città che oggi ha cambiato nome in "Tôkyô".
Tokugawa diede al "suo" Giappone un ordinamento bizzarro, per metà feudalesimo e per metà dittatura militare altamente centralizzata. Lasciò ai Daimyô la maggior parte dei loro privilegi, confermando la suddivisione del paese in grandi "feudi" chiamati han, che erano indipendenti sotto moltissimi punti di vista, incluso l'aspetto fiscale e in gran parte quello giuridico; ogni han era governato da un Daimyô, a parte quella porzione di territorio che lo Shôgun tenne direttamente per sé. Questa amministrazione "decentrata", fondata sulle consuetudini già esistenti nell'arcipelago, si rivelò sufficientemente efficace e duratura.
Date queste premesse, però, era interesse primario di Ieyasu impedire che i Daimyô potessero ribellarsi contro il governo centrale. Le misure che egli prese a questo riguardo sono stupefacenti.
Innanzitutto, egli ordinò i Daimyô sulla base della presunta fedeltà (stimata in base al loro essere vassalli dei Tokugawa da generazioni, o alleati più recenti, o nemici appena sottomessi) e di conseguenza li ridistribuì sul territorio, riassegnando i loro domini, in maniera che quelli ritenuti più "pericolosi" governassero gli han più lontani da Edo, con Daimyô via via più fidati a fare da "cuscinetto" nel mezzo.
Tutti i castelli del Giappone furono rasi al suolo, con l'eccezione di uno solo per ogni han, designato come residenza del Daimyô. Tutti i ponti del paese furono distrutti, a eccezione di quelli all'interno delle città: in questa maniera, i fiumi potevano essere traversati solo al guado o con traghetti, rallentando in maniera critica eventuali movimenti di truppe, ma senza troppo inibire i molti usi civili e mercantili di una rete viaria efficiente.
A tutti i Daimyô fu fatto obbligo di risiedere a periodi alterni di 6 mesi o di un anno (secondo la distanza dei rispettivi han) nel proprio castello e nella città di Edo, dove erano obbligati a mantenere una seconda residenza. La loro famiglia immediata, inoltre — ovvero la moglie e i figli — dovevano rimanere sempre nella residenza di Edo, praticamente in ostaggio del bakufu. Un certo numero di posti di blocco governativi permanenti interrompevano in punti cruciali le strade giapponesi, impedendo i viaggi a chi non fosse munito di un lasciapassare: la loro vera funzione non era soltanto di impedire ai criminali latitanti la fuga in un altro han, o ai contadini di abbandonare la campagna, ma soprattutto quella di fermare le mogli dei Daimyô qualora tentassero la fuga da Edo!
Il trasferimento annuale o semestrale dei Daimyô da una residenza all'altra avveniva con lo sfarzo di maestosi cortei, un obbligo imposto per legge che contribuiva naturalmente a prosciugare le loro finanze.
Nello stesso spirito di prevenire rivolte, il bakufu limitò la produzione e la circolazione di armi da fuoco, che infatti durante il periodo quasi sparirono dalla vita giapponese, senza mai evolversi oltre la tecnologia delle armi a miccia che aveva raggiunto l'apice nel Cinquecento.
(continua...)
Rafu:
Il periodo Edo - 2
La stabilità del regime — obiettivo primario di Tokugawa — richiedeva non soltanto che i Daimyô non potessero ribellarsi, ma anche che l'intera popolazione fosse preventivamente impossibilitata alla rivolta.
Il disarmo dei contadini era già stato intrapreso da Hideyoshi; Ieyasu abbracciò appieno questa iniziativa e la estese. Durante tutto il periodo Edo fu illegale il possesso di spade, pugnali o praticamente di qualunque arma per chiunque non fosse un "samurai" (a eccezione dei coltelli e altri strumenti di lavoro per le professioni che li richiedevano), mentre i bushi si distinguevano dal resto della popolazione appunto per il fatto di portare le spade.
Ma era necessario sradicare anche le idee pericolose... Ieyasu considerava particolarmente pericoloso il cristianesimo, per vari motivi: sia perché i Daimyô convertiti del sud erano stati fra gli ultimi suoi oppositori a capitolare, sia per gli ideali egalitari del cristianesimo che davano all'individuo e/o al prossimo preminenza sulla ragion di stato, sia anche per il timore che i missionari portoghesi e spagnoli fossero in realtà la testa di ponte di un tentativo di colonizzazione (idea che, a quanto si vocifera, sarebbe stata suggerita a Tokugawa da mercanti inglesi o olandesi desiderosi di accedere al ricco mercato giapponese). Per tutte queste ragioni, il cristianesimo fu messo fuori legge e i cristiani perseguitati (nella prima fase del periodo Edo si ebbero numerosissimi martiri).
Disfacendo l'opera di Nobunaga, quindi, Tokugawa si alleò con i templi buddhisti per utilizzarli come "anagrafe" dello stato. L'ordinamento morale del proprio regime, però, lo fondò sul confucianesimo — in una forma "scolastica" tarda e a mio parere corrotta promulgata dagli studiosi suoi protetti, che estendeva la "pietà filiale" confuciana a significare "rispetto per i superiori", e quindi impostava una piramide sociale a molti gradini costruita su legami personali e profondamente interiorizzati di obbedienza incondizionata.
Per proteggere l'impianto ideologico del regime contro l'influsso del cristianesimo e di altre "pericolose idee straniere" (ma probabilmente anche per prevenire il contrabbando di armi), si diede inizio a quella che è la più stravagante e megalomane operazione di questo stravagante e megalomane regime: l'isolamento nazionale.
Per due secoli e mezzo, il Giappone fu tagliato fuori dal mondo esterno. I giapponesi non potevano uscire, mentre gli stranieri (e le loro merci e i loro libri) non potevano entrare. L'unica eccezione a quest'ultima regola, eccezione strettamente vigilata, si aveva a Nagasaki, porto del Giappone meridionale nel quale era ammessa una piccola e ben controllata comunità di mercanti cinesi autorizzati dal bakufu, principale "porta" sugli avvenimenti e i prodotti del resto del mondo.
In aggiunta ai cinesi, Nagasaki ospitava (su una minuscola isoletta artificiale nel mezzo del suo porto) una piccola missione commerciale olandese. Per la maggior parte del tempo qui risiedevano solo una mezza dozzina di europei, ai quali era peraltro vietato scendere sulla terraferma, ma una volta l'anno vi attraccava una nave proveniente dall'Olanda: in questa occasione, una delegazione diplomatica olandese veniva scortata alla presenza dello shôgun, il quale inoltre esigeva da questi emissari la stesura un bollettino che documentasse tutti gli avvenimenti recenti attorno al globo. In questa maniera, gli olandesi erano il vero "filtro" (strettissimo) tra il Giappone e il resto del mondo. Le informazioni e le merci da loro riportate erano top-secret, rigorosamente riservate all'uso governativo, ma intellettuali e artisti, interessati alla cultura "del mondo esterno", si precipitavano con ogni espediente a raccoglierne le briciole. Una rete di spie e agenti segreti reclutati (in cambio di speciali concessioni e protezione) fra gli intellettuali stessi aveva il compito di impedire il dilagare di "idee pericolose" nel paese.
Rafu:
Il periodo Edo - 3
L'ordinamento formale della società era in quattro grandi "classi": al di sopra di tutti i bushi (samurai), poi i contadini (al quale veniva riconosciuto un valore "morale" ben maggiore della loro importanza reale), gli artigiani e i mercanti (moralisticamente considerati "improduttivi", persone che spostano ricchezza anziché crearne). Facevano eccezione a questa piramide i nobili della corte imperiale, alcune professioni "speciali" (come quella dei medici)... e poi c'erano, al di sotto di tutti, i miserabili "fuoricasta": mendicanti, vagabondi, attori, musicanti, prostitute e i praticanti di alcuni mestieri "ritualmente impuri".
I contadini erano praticamente vincolati alla terra che coltivavano: senza permessi speciali, non potevano lasciare il loro villaggio natio. Menavano un'esistenza grama e la maggior parte del loro raccolto veniva incamerato dalle autorità come imposte (e questa tassazione in natura del prodotto agricolo costituiva la base di tutto il sistema economico).
Gli artigiani erano presenti sia nelle campagne, sia nelle città, anche secondo il loro specifico mestiere, e con i mercanti rappresentavano il grosso della popolazione urbana.
Nelle città si conduceva una vita per molti versi migliore di quella rurale, sia perché vi si trovavano lussi grandi e piccoli e divertimenti un po' per tutte le tasche, sia perché erano gli unici luoghi ove esisteva un minimo barlume di mobilità sociale. Pertanto l'abbandono delle campagne da parte dei contadini più poveri o in annate cattive, seppur vietato, era frequente: queste persone andavano ad infoltire i ranghi degli operai non specializzati, dei facchini e di simili lavoratori.
La classe dei bushi, che stava all'apice della teorica piramide, era in realtà assai eterogenea, comprendendo sia lo Shôgun stesso e i Daimyô, signori e padroni del paese, con le loro famiglie, sia militari di rango via via più umile, fino a semplici sorveglianti la cui vita era frugale quanto quella dei contadini, alle loro mogli e alla loro prole. Privilegio esclusivo della classe era quello di portare le armi, e a prova di questo tutti i bushi maschi adulti erano armati del daisho (cioè delle due spade) che simboleggiava anche il loro formale diritto di vita e di morte sugli appartenenti alle altre classi. In pratica, l'esecuzione sommaria di contadini o servi era praticata solo per ordine dei bushi di rango più alto e solo in particolari situazioni percepite come gravi oltraggi, ma era comunque un fatto reale della vita.
Tutti i bushi erano in pratica "dipendenti statali", o altrimenti potremmo dire "vassalli" di un signore — lo Shôgun o uno dei Daimyô — il quale garantiva ai propri sottoposti il sostentamento. Shôgun e Daimyô incameravano infatti il riso coltivato entro i propri rispettivi domini, e poi lo ridistribuivano come uno "stipendio" annuale ai propri diretti seguaci, in ragione del loro rango. Ciascuno di questi bushi aveva a propria volta dei seguaci, fra i quali suddivideva la propria quota di riso, e così via fino ai ranghi più bassi della classe sociale, il cui stipendio-riso bastava appena a loro stessi — o al massimo alla consorte e alla prole. Con questo sistema, il rango, riflesso dell'entità dello stipendio, era espressione diretta del numero di uomini che si supponeva quel dato bushi avesse o potesse avere sotto di sé.
Il sistema degli stipendi in riso si rivelò tuttavia, sul lungo periodo, un tallone d'Achille dello shogunato: era un impianto adeguato alla situazione iniziale del periodo Edo, quando i Tokugawa avevano appena preso il potere, ma proprio in quanto fondato su pagamenti in natura non era in grado di evolversi con i tempi. Un conto erano i soldati di un castello in una regione rurale, ma con il passare dei decenni sempre più bushi, a partire proprio dai più importanti, vollero e in certi casi dovettero trasferirsi nelle città; e le città si reggevano su un'economia monetaria: quando la moglie di un guerriero voleva un vestito nuovo, quando vassalli e soldati necessitavano di nuovi equipaggiamenti, quando la dimora della famiglia andava ampliata, per tutte queste transazioni non erano sacchi di riso a passare di mano, bensì moneta metallica (d'oro a Edo, d'argento nelle altre città principali)! La vera base dell'economia, insomma, finì per essere non nel riso, ma nei mercanti di riso, i quali agivano come veri e propri banchieri, non solo cambiando lo stipendio dei bushi in denaro contante, ma spesso anche anticipando tale denaro contro l'impegnativa degli stipendi in riso futuri. Col passare del tempo, però, come ci si potrebbe aspettare, il riso andò incontro a una svalutazione, e non adeguandosi inoltre gli stipendi ufficiali al tasso reale di inflazione i bushi (o almeno la maggior parte di loro) divennero progressivamente più poveri.
Anche nelle loro funzioni, in fondo, i bushi erano snaturati: nati come classe guerriera e ascesi al potere in quanto tale, vivevano ora — come conseguenza diretta del proprio successo — in un'era di pace, nella quale le le loro spade e archi trovavano occasionale impiego solo per sopprimere qualche rara rivolta contadina. Infatti, solo una frazione di loro avevano incarichi di natura in qualche modo "militare" (incarichi, cioè, di sorveglianza o di mantenimento dell'ordine pubblico, incluse per esempio le funzioni di polizia). Molti bushi furono invece impiegati dal regime Tokugawa come funzionari e burocrati, mansioni realmente necessarie al funzionamento dello stato a ogni livello. Dovettero, insomma, maneggiare più il pennello che la spada, nonostante che gran parte del loro curriculum formativo fosse ancora, per tradizione, dedicata alle arti marziali. Vivevano, in effetti, in uno stato di costante "schizofrenia", essendo guerrieri che non combattevano: una classe di individui addestrati per essere guerrieri, mentalmente impostati per essere guerrieri, il cui condizionamento militare all'ubbidienza era volto quasi sempre a mansioni civili. Una fortissima tradizione di violenza correva nel sangue dei samurai — persone abituate da secoli a riparare ogni mancanza con lo spargimento di sangue, proprio o altrui — ma nel presente dell'epoca Edo essa doveva essere costantemente imbrigliata dal regime, e spesso e volentieri l'unico sbocco per la violenza era in quella rivolta a se stessi: quando cioè un bushi dissidente, o colpevole di un errore nello svolgimento dei propri compiti, veniva "invitato" dalle autorità a darsi la morte, unica fine "onorevole".
Formalmente, insomma, il paese era dei bushi, ma nella pratica il periodo Edo fu spesso e volentieri il periodo dei mercanti — la classe ritenuta "moralmente" più abietta, ma in possesso delle maggiori fortune. Non a caso furono le città, e non le campagne, le maggiori produttrici di cultura, e anche di cultura innovativa: le molte invenzioni artistiche del periodo Edo, spesso motivate dal desiderio di divertimento dei ricchi mercanti o della popolazione urbana tutta, spesso esse stesse imprese commerciali in sfrenata concorrenza, e quasi sempre animate da un chiassoso gusto popolare, costituiscono i pilastri fondamentali della cultura giapponese come oggi noi la conosciamo. Al mondo urbano di questo periodo dobbiamo infatti il teatro Kabuki, il teatro delle marionette, gran parte della musica oggi ritenuta "tradizionale", le stampe policrome che tanto hanno influenzato l'arte occidentale, moltissime tendenze dell'architettura e delle arti applicate, dell'arte culinaria, della poesia.
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