Sabato sono riuscito finalmente a provare Kagematsu.
Non ero sicuro che fosse necessario un AP: il gioco è conosciuto, tanti ne hanno già scritto. Ma alla fine continuo a pensare a quella partita, ed ormai ho capito che, in questo caso, l’unica è buttare giù le emozioni e riflessioni che il gioco mi ha regalato.
Per chi non ha voglia di leggere la fiction, le mie impressioni sono in corsivo anche se potrebbero non essere molto chiare, staccate dal racconto degli avvenimenti.
I luoghi
Il posto si chiama la Città del Ferro. Il nome è appropriato. La miniera è sempre stata il centro e la fortuna di questo piccolo villaggio di collina. Questo, almeno, fino all’arrivo della nebbia. La nebbia è uscita lentamente dalla miniera, silenziosamente, e ora circonda tutto il villaggio.
Nessuno può entrare, nessuno può uscire. Gli uomini hanno provato, uno dopo l’altro, ad entrare nella miniera per capire cosa stesse succedendo, per salvare il villaggio. Ma nessuno è mai tornato.
Nonostante la nebbia, è primavera e il villaggio è bellissimo. Le case, con i loro splendidi giardini, sono pulite ed ordinate, gli alberi in fiore. La locanda è aperta e si sente il battere del martello del fabbro, giù alla fucina. C’è cibo in abbondanza, i campi sono rigogliosi e l’acqua, che sgorga dalla sorgente del tempio nella foresta, è fresca e pura: scorre via, veloce, fermandosi poi in una piccola polla tra gli alberi: c’è una ragazza, seduta su un masso, con i piedi a mollo. È tutto bellissimo.
Ma nessuno può entrare e nessuno può uscire.
Siamo a Gnoccocon, su una panca, in mezzo agli altri. A ripensarci, ora, se dovessi tornare indietro cercherei un posto più lontano, più appartato, a costo di sedermi su qualche panchina, o sull’erba.
Non per colpa di quelli che giocavano vicino a noi, anzi. Ma per l’atmosfera. Talvolta, soprattutto all’inizio, ho faticato a rimanere concentrato e soprattutto serio. Quando era il mio turno non avevo problemi: la Biasola scompariva e io ero semplicemente lì, con Kenji. Ma nei turni degli altri mi rendo conto di aver fatto forse qualche battuta di troppo. Scusatemi, se magari sono stato fastidioso senza rendermene conto.
Se dovessi rigiocare a Kagematsu, mi cercherò un posto lontano, dove stare solo noi giocatori e niente altro.
Le donne
Rumiko (io) è la giovane moglie del capo villaggio. È alta, ed ha perennemente un’espressione seria anche se gli occhi, se li si guarda bene, nascondono un’allegria trattenuta. Spesso li stringe leggermente, come se non ci vedesse bene. I capelli sono neri e lunghi: a lato, c’è un’unica ciocca completamente bianca. I suoi preferiti erano il Kimono del capo villaggio, rosso con un mezzo sole arancione sull’orizzonte (alba? tramonto?) e il suo fratellino piccolo, Takai.
Delle altre do solo qualche piccolo spunto. Completeranno loro se vogliono.
Ai (Emanuele) è una giovane arciera. Kioko (Giovanni) una ex prostituta di cinquant’anni, guardiana del tempio. Sakura, è il fabbro del villaggio, forte e indipendente.
Non avevo mai giocato con nessuno dei miei compagni dal vivo (tranne che con Manuela) ma mi sono trovato benissimo con tutti loro. Ma, sarà sincerò, ormai questa non è più una sorpresa. Ho capito che le persone che incontri alle CON, soprattutto quando scelgono di giocare con te a certi giochi (come Kagematsu), difficilmente si rivelano cattivi compagni di gioco.
Quanto a Rumiko, chi mi conosce noterà alcuni elementi caratteristici dei miei personaggi: un ruolo di responsabilità e qualcuno di cui prendersi cura. L’idea della moglie del capo villaggio e del fratellino le avevo immaginate in anticipo. La ciocca di capelli bianchi (che avrà un ruolo importante nella storia), invece no.
Non appena ho finito di descriverla, ho scelto innocenza 4 e fascino 3. Non avevo nemmeno finito di scriverlo che Manu definiva questa scelta “la via del dolore”. Va beh, ormai era andata.
Kenji
Kenji era il nostro Kagematsu. Un uomo dolce, capace di non prendersi troppo sul serio (che è forse una delle caratteristiche che ho amato di più), spaventato dal ruolo che gli è stato imposto, dalla sua responsabilità e timoroso di deludere le persone a cui teneva. Un Kagematsu affamato di vita, di normalità; di quelle piccole cose (un pranzo, una bevuta tra amici,…) che talvolta noi vivi diamo per scontate: sì, perché Kenji era morto (avete letto bene: questa volta non era cieco o posseduto, questa volta era morto). All’interno della nebbia del villaggio, era tornato nuovamente “vivo”, e così noi lo avevamo conosciuto.
Il nostro ronin è stato interpretato da Manuela con la sua solita straordinaria bravura (fa un po’ effetto unire solito a straordinario, ma è così, cosa volete che vi dica). E pensare che era anche stanca.
Mi è piaciuta molto l’idea del Ronin morto. Ci sono arrivato tardi, e forse avrei potuto capirlo da prima, ma sono contento di essere stato ingenuo e di essermi lasciato stupire, anche considerando quanto questo ha poi influenzato il rapporto tra il mio personaggio e il Ronin.
Primi sguardi
La mattina di Rumiko inizia, come ogni giorno, con un giro dei confini del villaggio, per capire se qualcosa è cambiato, se la nebbia ha lasciato dei varchi. Ma la nebbia è sempre lì.
Questa mattina, però, c’è una figura,un uomo, sembra, seduta sull’erba. Rumiko si avvicina lentamente, passando per il bosco. Non sa ancora chi sia ed è suo dovere, come capo del villaggio, cercare di scoprire se lo straniero (il “Nobile straniero” come lo chiamerà fino alla presentazione) può essere una minaccia.
Solo che lui si accorge di lei e la guarda negli occhi. Molto, molto più a lungo di quanto sarebbe opportuno. Arrossendo, ma mantenendo la sua espressione seria, Rumiko si presenta e lo accoglie nel villaggio, invitandolo a seguirla.
Il giorno dopo i due si incontrano mentre Rumiko sta per iniziare il suo giro. In quel momento Takai (il fratellino) arriva correndo e si attacca alla sorella chiedendo se può venire anche lui. Lei si lascia andare, per un attimo, ad un sorriso allegro. Poi, preoccupata, si volta per controllare per se il nobile Ronin si è offeso. Ma Kenji le sta sorridendo, felice. Allora Rumiko si carica in spalle Takai e partono per una passeggiata lungo il bordo.
Camminano e parlano finché la nebbia non si allunga oltre il confine, trascinando all’interno Kenji e lasciando Rumiko e Takai sconvolti e spaventati.
La prima scena è stata utile per familiarizzare con le meccaniche del gioco. Ma non è stato difficile: Manu aveva spiegato molto bene le regole.
Come è stato già detto da molti, il gioco è veramente elegante e le meccaniche sono perfette per ottenere quello che si prefigge. All’inizio è facile ottenere i segni di affetto; ma più ne ottieni, più sei portato a legarti al Ronin. E più sei portato a legarti a lui, più farà male quando poi inizierai a non avere abbastanza dadi per ottenere ciò che vuoi. Se non tramite i gesti disperati. Ma ne parliamo poi.
L’arrivo della minaccia è stato davvero complicato da gestire per me. Come ho detto al tavolo mi sono sentito un po’ come quando, da piccolo, ti capitava una carta “salta il turno”. Stare lì a guardare gli altri giocare, sapendo che la mia scena mi era stata tolta così mi ha fatto un po’ male. Col senno di poi, però, sono contento che sia capitato soltanto alla seconda scena: è successo di peggio, anche nella nostra partita.
Dal punto di vista “emotivo” la prima scena era stata abbastanza neutra. Ma già dalla seconda, con il sorriso felice di Kenji, stavo iniziando ad affezionarmi a lui.
Le cose si fanno serie
Rumiko ha cercato Kenji per tutto il giorno, sconvolta.
Verso sera, finalmente, lo vede mentre sta facendo i kata con la spada ai bordi della foresta. Il sollievo è forte ma si controlla e rimane ad attendere che lui finisca. Kenji termina (prima del previsto) i suoi esercizi e poi, per prima cosa, si scusa per averla fatta spaventare.
I due passeggiano insieme fino a quando non si siedono su un tronco caduto dove lui (probabilmente stufo di farsi chiamare Nobile straniero) le dice di darle del tu. Rumiko a quel punto vorrebbe qualcosa di più, vorrebbe sapere il suo nome, ma le cose si fanno difficili. Cerca di “corromperlo” invitandolo nella sua casa per cena, ma Kenji non cede finché Rumiko non gli spiega che ha bisogno soltanto qualche momento di normalità, per lei ma soprattutto per Takai, perché ha paura che il fratello possa fare qualche stupidaggine e cercare di scappare dal villaggio. Kenji, allora, cede e si presenta.
La sera, in casa, Rumiko si toglie finalmente il Kimono e si scioglie i capelli: Kenji è stupito dalla ciocca bianca e Rumiko gli spiega che le è venuta quando è nato Takai. È un legame con suo fratello.
Poi cucina per Kenji, con cura e amore, usando ingredienti speciali, quelli tenuti da parte per un’occasione unica e importante. Takai, a cui non par vero, non fa che chiedere perché questa sera si mangiano tutte queste cose buone; Kenji, divertito, si complimenta per la sua cucina.
Messo a letto Takai, Rumiko cerca di scoprire cosa porta qui questo Ronin, ma lui esita, sembra triste. Lei a quel punto inizia a spogliarsi, cercando di fargli vedere qualcosa di bello, per farsi perdonare rispetto ai pensieri tristi che gli ha fatto tornare in mente. Ma lui le dice di smetterla subito. Allora Rumiko si prostra, chiedendo scusa e perdono per la pessima figura che ha fatto fare a tutto il villaggio. Kenji cede e le rivela il suo segreto: lui è morto. Rumiko è sconvolta e non riesce sa cosa rispondere.
Queste due scene sono state strane. È stato il mio primo contatto con i gesti disperati (corrompere e pregare, per ottenere l’invito a cena; spogliarsi e pregare per ottenere il segreto).
Io, come al solito, giocavo di pancia. Ma a questo punto del gioco, in qualche modo stavo ancora tenendo conto dei punti paura. Stavo ancora cercando di utilizzare le meccaniche a mia disposizione per “vincere” il gioco (non per diventare l’amata, ma per salvare il villaggio). Lo scrivo, anche se magari sembra ovvio, perché di lì a poco le cose sarebbero cambiate. L’uso dei gesti disperati, quindi, non mi ha pesato e, forse, l’ho anche in qualche modo forzato. Il tentativo di Rumiko di spogliarsi era forse eccessivo rispetto a quello che di lei si era visto finora: ma, come mi hanno insegnato questi giochi, non sempre si conosce così bene il proprio personaggio e talvolta bisogna imparare a capirlo, anche quando fa qualcosa di inaspettato.
In ogni caso, questi gesti disperati dovrebbero avermi fruttato i due unici punti di pietà della partita.
Nel frattempo, mentre io vivevo queste due scene, Emanuele stava ampiamente conquistando il cuore del nostro Ronin e la cosa era anche abbastanza evidente. Ma, stranamente, non ne ero molto geloso. Manu mi diceva che lei fatica a giocare un ruolo diverso dal Ronin per la competizione e gelosia. Io, personalmente, sono stato molto (e intendo MOLTO) più geloso durante una partita di Dilemma. Ripensandoci a mente fredda in questi giorni, mi sono reso conto forse del perché non lo fossi qui: semplicemente ero convinto che alla fine l’amata sarebbe stato chi avesse avuto la dichiarazione d’amore e, se nessuno ce l’avesse fatta, allora … non so, sarebbe successo altro. Non mi era del tutto chiara l’importanza dei punti amore per la determinazione dell’amata. Se l’avessi capito, probabilmente avrei sofferto di più mentre Emanuele, durante le sue scene, macinava punti d’amore su punti d’amore.
Un ultima cosa: il mio rimanere senza parole di fronte alla rivelazione del segreto di Kenji mi ha aiutato a definire Rumiko: l’ho interpretato come se lei, semplicemente, avesse creduto al Ronin, senza bisogno di ulteriori conferme, a differenza, ad esempio, di Ai. Io ho preso questa fiducia e ne ho fatto un punto importante di Rumiko.
Segni d’affetto mancati
Il giorno dopo, quando rientro a casa, trovo Kenji che sta facendo lezione di calligrafia a Takai. E, improvvisamente, quella scena così semplice, mi fa sentire come se stessi tornando davvero a Casa, come lui facesse parte di questo posto, da sempre; come se le cose stessero tornando normali. Li guardo per un po’, per non disturbarli (ancora questa attesa), e poi mi avvicino e chiedo se posso unirmi a loro. Una volta, dico, anch’io lo sapevo fare, anche se sono un po’ arrugginita. Prendo il pennello e disegno il kanji per Speranza (che poi ho scoperto voler dire anche desiderio). Lo consegno a Kenji che lo prende con cura. Vedo che è colpito.
Allora capisco cosa devo fare: mando fuori Takai con una scusa (a prendere degli ingredienti per la cena, credo) e inizio a spiegare a Kenji che anche se lui è morto, qui non sembra esserlo. Forse c’è qualcosa che lo lega a questo posto e gli dico che vorrei rafforzare questo legame, legarlo ancora di più al villaggio (e a me, ma questo non lo dico).
Gli prendo i capelli tra le mani e, con un unguento, coloro una lunga ciocca dei suoi capelli di bianco.
La sera stessa, nel villaggio sta piovendo. Takai è a letto e io e lui siamo in “salotto”. Lui è agitato; gli parlo a lungo per calmarlo; gli ripeto che il suo posto è qui. Che non deve avere paura del futuro ma che, comunque, qualunque cosa accadrà, adesso lui è qui, è vivo e deve approfittare di questo. Nel dirlo gli tocco il petto, gli sento il cuore e lui prende la mia mano e la porta al viso per sentirne il calore e il profumo. Io chiudo gli occhi, davanti a lui e aspetto, sciogliendomi leggermente la veste. Ma un attimo lunghissimo trascorre, senza che lui si muova, e allora mi appoggio tra le sue braccia. Lui mi stringe. Fuori continua a piovere.
Qualche notte dopo, mentre dormo, sento bussare alla porta. Un bussare strano. Apro e me lo vedo davanti, stanco, provato, febbricitante. Mi dice che non ha ancora molto tempo ma io non ci credo e gli dico che non è vero. Poi gli dico che quando è arrivato pensavo a lui come al salvatore del villaggio. Del resto, era il mio compito farlo. Ma ora, non voglio più che si sacrifichi per noi. Preferisco che rimanga qui, non voglio perderlo. Non mi interessa niente del villaggio: voglio solo che lui rimanga. Kenji è distrutto e si appoggia a me. Io lo conduco verso la camera di Takai, dove avevo già preparato un altro futon per lui. Lo prego nuovamente di non andare restare, perché per me è troppo importante. Ma lui è troppo stanco, e senza rispondere, crolla addormentato sul futon.
Le ultime tre scene sono state in assoluto le più intense nonostante (o forse proprio perché) nessuno dei tre segni di affetto che ho cercato è andato a buon fine (un dono, un bacio, una confessione d’amore).
Non ho potuto utilizzare gesti disperati, tranne pregarlo. Non me la sono proprio sentita. Giunto a quel punto della partita, semplicemente non era giusto mettere in dubbio il suo onore o minacciarlo o che so io. Non lo avrei semplicemente potuto fare. Non mi interessava davvero più nulla del villaggio, nè delle regole del gioco.
E qui ho davvero amato Kagematsu. Metterti così di fronte al fatto che dovresti compiere quei gesti disperati ma che non vuoi farlo, perché non è giusto farlo, beh, non fa altro che farti capire ancora di più quanto tu ti sia affezionato al Ronin. L’ho trovata una meccanica di gioco davvero meravigliosa, e credo che Emanuele (io e lui eravamo i due che si erano affezionati di più a Kenji, credo) abbia provato la stessa cosa.
Alla fine, comunque, io non volevo che lui se ne andasse e non volevo che qualcuno gli strappasse la promessa. O, quantomeno, certamente non lo avrei fatto io. Cosa che avrebbe portato ad un bel problema se fossimo arrivati ad un altra scena perché mi rimanevano solo due segni: la promessa e un momento di passione. Per fortuna non ho dovuto giocare la mia ultima scena, perché davvero non avrei saputo per cosa andare. Anche se, messo alle strette, avrei scelto il momento di passione. Non avrei mai potuto chiedergli di andare a morire.
Kagematsu, come altri giochi di questo tipo, cresce con il tempo. E così se le prime scene sono, diciamo, semplici alla fine il peso del gioco si fa sentire. E infatti c’erano meno battute al tavolo e io ho passato quasi tutto il tempo in piedi, per sentire meglio e sbirciare i lanci dei dadi.
E poi c’è quella tensione maledetta in cui non sai mai quando gli altri andranno per la promessa, chiudendo il gioco, quando magari tu non hai ancora provato ad ottenere quella confessione, perché non era il momento giusto. Fortunatamente (per me), Emanuele ha lanciato tre sei mentre cercava di ottenere la promesssa, permettendomi un ultima scena con Kenji che lui non ha potuto avere.
Alla fine, Lavinia con una lunga scena (in cui, lei sì, ha usato credo tre gesti disperati) è riuscita a strappare la promessa al Ronin.
Il finale
La nebbia, ormai, non rimane più ai confini della città. Sta serpeggiando nelle strade del villaggio, tra i giardini e il tempio. Le persone iniziano a sentirsi stanche, assonnate e si raccolgono nella locanda, per stare insieme in questi momenti.
Kenji entra nella miniera. La nebbia si chiude alle sue spalle.
Lui procede con passi lenti, misurati. A ogni passo dice i nostri nomi, con la determinazione di uno spettro che rivendica ciò che è suo. La sua voce è un sussurro all’inizio, poi cresce, man mano che si inoltra nella miniera, finché non diventa un urlo. Un urlo che spazza via per sempre la nebbia.
Quella sera sento un bussare strano alla porta. Lo riconosco. Quando apro, Kenji è davanti a me. È cambiato: sembra più vecchio, i suoi capelli sono grigi, ma è vivo. Gli salto al collo, senza aspettare questa volta. Poi gli prendo i capelli tra le mani e, sorridendo, gli faccio vedere che, lì, tra il grigio, c’è ancora una ciocca bianca. Lui mi guarda, sorride e mi bacia.
Mi è piaciuto molto come il gioco costruisce il finale. Il fatto che, alla fine, si tratti di una lotta tra la paura e l’amore. Ed ho trovato splendida anche la possibilità di sacrificarsi per Kagematsu.
Ho anche apprezzato molto come Manuela ha scelto di descrivere la “battaglia finale”.
Come ho detto prima, non avevo ben capito il discorso che si poteva essere l’amato indipendentemente dall’esito dei segni di affetto. Questo ha forse diminuito la mia gelosia ma ha concentrato tutta la tensione in cui pochi momenti in cui Manu ha atteso prima di rivelare il nome dell’amata.
Ci speravo, devo dire la verità, sopratutto per quelle ultime scene, in cui anche la poker face di Manu si era incrinata. Ma poco prima Ai stava per ottenere la confessione e, beh, poteva benissimo essere anche lei.
Invecei alla fine è finita bene, almeno per me. Il che vuol dire che mi toccherà provare un’altra partita per provare com’è non essere l’amato.
Considerazioni finali
Il gioco mi è piaciuto molto. E, soprattutto, mi ha ricordato quello che io cerco nei giochi di ruolo. Come devo aver già scritto da qualche parte sono convinto che certe emozioni (che nascono non solo dalla sensazione di essere davvero protagonista di una storia, ma, soprattutto, dallo scambio di emozioni che hai con le altre persone al tavolo) le possa dare soltanto un gioco di ruolo.
Ora, per quanto a me piaccia anche giocare per divertirmi, questa partita mi ha ricordato che il divertimento che può darmi DW (un nome a caso) non può competere con le emozioni che, quando va tutto bene, sanno darmi giochi come Dilemma o Kagematsu.
Alle Con, quindi, dovrò cercare di dedicarmi a questi giochi. Il prossimo nella lista (e lo scrivo, così poi potrete obbligarmi a farlo, dato che ormai l’ho dichiarato) sarà l’Amore al tempo della guerra. Perché magari mi farà soffrire, ma sono sicuro che ne uscirò avendo vissuto una storia che mi lascerà qualcosa dentro e che probabilmente continuerò a ricordare a lungo (così come ricordo ancora Vienna, Lisa e, ora, Kenji).