Autore Topic: [Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura  (Letto 9529 volte)

Giulia Cursi

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[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« il: 2013-07-08 10:35:01 »
La sessione di Kagematsu a DilemmaCON vista dagli occhi di Kagura, la giovane apprendista sacerdotessa.
È in questa sezione del forum perché si tratta di sola fiction, più delle aggiunte da parte di Alessia che comunque danno un tocco in più per ricreare l'atmosfera. Ci sono tanti riferimenti a Inuyasha, così per dimostrare che non è necessario conoscere la storia giapponese, il periodo Eo o ogni mito per giocarlo.



Un arrivo inaspettato / L'arrivo di Kagematsu al villaggio

L’uomo sotto la pelliccia era un samurai, anche senza notare la ricchezza dei suoi abiti o l’armatura legata al cavallo, sarebbe bastato gettare uno sguardo alle spade che teneva al fianco per saperlo. Ma soprattutto era un uomo che aveva bisogno d’aiuto.
La guerra lontana dei Daimyo aveva privato il villaggio di quasi tutti i suoi uomini: chiunque fosse in grado di reggere le armi era partito con le truppe, a sud, strappati alle montagne che li avevano visti nascere e diventare uomini. Chissà in quanti avrebbero fatto ritorno, un giorno…
Quest’uomo non era tra coloro che erano partiti. Non l’avevo mai visto prima e non seppi individuare alcuna simbolo riconoscibile sui finimenti del cavallo o sulle sue vesti.
Malgrado la stanchezza lo facesse procedere incurvato e lo obbligasse ad appoggiarsi a noi, era imponente e aveva qualcosa che non sapevo spiegarmi… intorno a lui vi era un’aura che mi colpì profondamente. Chissà se anche Oharu l’avvertiva… probabilmente no, sembrava soltanto molto preoccupata per le sue condizioni. Era stata lei, per prima, ad accorgersi dell’arrivo dello straniero nel villaggio: l’aveva coperto con una delle pelli che il suo anziano padre lavorava solitamente, temendo che il freddo stesse per avere la meglio sulla sua resistenza, quindi aveva chiesto aiuto per portarlo al tempio.
Mentre cercavo di sostenerlo sentii la presenza sotto gli abiti di un altro oggetto, probabilmente un’altra arma, ma non vi rivolsi più di un frammento di pensiero perché lo straniero alzò appena la testa sotto il largo cappello.
Intorno a noi la prima neve d’inverno sembrò cadere più intensamente, un contrasto talmente netto con il colore dei suoi occhi che quasi rabbrividii.
Mia nonna sosteneva che gli Dei disseminassero il mondo di segni.
Non potei fare a meno di domandarmi, mentre procedevamo lentamente verso il tempio e le cure di cui sembrava avere un grande bisogno, se l’arrivo dell’uomo dallo sguardo d’ossidiana fosse uno di essi.


Scena 1 – Un sorriso

“Kagura”, la voce della prima sacerdotessa mi strappò improvvisamente ai miei pensieri. La guardai senza nemmeno provare a nascondere la mia distrazione, non avevo scusanti e… non mi era mai accaduto, prima.
“Perdonate oba-sama, non…”, non riesco a concentrarmi e non ho idea del perché.
Non potevo dirglielo, non questo.
L’anziana donna scosse la testa e il suo sguardo si addolcì tornando ad essere quello della nonna che mi aveva cresciuta da che potevo ricordare, “Non dimenticare i riti di purificazione bambina, poi potrai occuparti dei manoscritti se lo vorrai. A cena parleremo di nuovo”. Sorrise convinta forse di avere compreso cosa continuasse a rapire i miei pensieri, ma non poteva… nemmeno io stessa lo sapevo, di certo però non erano i manoscritti e nemmeno i riti stagionali e forse nemmeno la scelta che avrei dovuto prendere.
Non era infatti al consacrarmi o meno agli Dei che pensavo percorrendo lentamente i corridoi del tempio, senza che alcun suono accompagnasse i miei passi.
Lo vidi nella sala dei venti, inginocchiato sul tatami, intento ad occuparsi delle sue armi.
Per lunghi istanti non riuscii a smettere di osservarlo, silente come le statue degli Dei che, intorno alle pareti, osservavano con occhi di pietra Tessaiga, la spada reliquia che era il nostro tesoro più prezioso e che avevo l’onore di custodire e curare io stessa.
Per una volta tuttavia, non fu la Lama dei Venti a catturare il mio sguardo.
I suoi movimenti erano lenti e precisi, frutto di esperienza e perizia senza dubbio, come se il tempo o il mondo non potessero in alcun modo interferire con la serena imperturbabilità del Bushi. Non l’avevo più visto da quando la nonna l’aveva preso sotto le sue cure, alcuni giorni prima, eppure mi resi conto in quel momento di non averlo lasciato un istante.
Si era preso i miei pensieri e volevo sapere perché.
Essendo la custode della katana sacra avevo familiarità con le armi e non mi occorse molto per rendermi conto di quanto le sue fossero pregiate e ottimamente conservate: il tanto e il wakizashi erano semplici e perfetti, neri come la notte nel fodero e nell’impugnatura, ma la katana era completamente bianca, il fodero finemente inciso a foggia di drago, in esso riconobbi il Dio Drago di ghiaccio, che alcuni chiamano Ryujiyn, o Kagematsu.
Accanto all’uomo inginocchiato stava un tessen aperto, un’arma di letale e aggraziata bellezza come ancora non ne avevo mai viste, sul tessuto tra le lame erano tracciati i versi di un sutra.
I segni.
Forse avrei dovuto procedere oltre, ma non lo feci. Non avevo bisogno di leggerlo sul tessen per ripetere mentalmente le parole del sutra dell’amore.
Il guerriero richiuse il ventaglio e lo ripose rispondendo al mio inchino con un gesto del capo, non sembrava infastidito dalla mia intrusione, o se lo era non lo diede a vedere.
Ai piedi dell’altare su cui era posta Tessaiga presi la piccola giara di giada che conteneva gli oli benedetti, mi inginocchiai invocando la benevolenza degli Dei e rivolsi nuovamente la mia attenzione allo straniero che continuava in silenzio ad occuparsi delle proprie armi.
Avevo ragione su di lui: era un uomo imponente, sembrava molto giovane, forse pochi inverni più vecchio di quanto non fossi io stessa, ma qualcosa nel suo sguardo raccontava altro. I suoi erano occhi che avevano visto molto più di quanto non sembrasse, forse era quello di lui che continuava a richiamare i miei pensieri.
“Le vostre sono armi di grande bellezza mio signore”, “Ti ringrazio”. La sua voce era profonda quanto i suoi occhi, quanto sarebbe stato un salto in acque perfettamente immote; mi trovai a pensare a come sarebbe stato sentirlo leggere il sutra che portava sul tessen.
Se anche il corso dei miei pensieri fosse stato tradito, ugualmente non me ne curai e gli porsi la piccola giara, “Questi sono gli oli cerimoniali del tempio, anche di essi sono la custode”, non sapevo perché, ma ero quasi certa sapesse di me più di quanto desse ad intendere, “Ve li offro, per la vostra vita”.
La katana rappresentava la vita di un samurai, la via del Bushido, intimamente legata a ciò che è e che può diventare.
Lo sguardo d’ossidiana percorse la lama snudata per tutta la sua lunghezza, seguendone i riflessi, “Può darsi. Ti ringrazio, ma questa… queste”, accennò con lo sguardo alle armi che aveva davanti, “sono soltanto armi, strumenti”. Era forse malinconia l’eco che sentii nella sua voce?
Qualunque cosa fosse, non potevo ignorarla più di quanto non potessi distogliere l’attenzione da lui. “Dite il vero, tuttavia…”, tacqui alcuni istanti cercando con gli occhi l’immagine familiare di Tessaiga, “Ogni strumento racchiude un significato. E’ il significato a essere davvero importante, qualunque cosa sia a rappresentarlo. Vi prego mio signore, se può esservi gradito accettate questo modesto dono”.
Prese la giara dalle mie mani senza sfiorarle, mi guardò e mi sorrise.
E il mio cuore mancò distintamente un battito.
A ricordarmi come rispondere fu soltanto l’abitudine, mi inchinai leggermente a salutarlo prima di lasciare la sala per tornare ai miei compiti, avevo forse trovato più risposte di quante ne cercassi, eppure il dubbio mi stringeva con ancor maggiore forza.

Lasceremo che il nostro amore pervada l’universo intero, in tutte le direzioni
Il nostro amore non conoscerà ostacoli
Il nostro cuore sarà assolutamente libero da rancori e ostilità
Questa è la più nobile maniera di vivere
« Ultima modifica: 2013-07-08 20:31:20 da Giulia Cursi »
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Giulia Cursi

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #1 il: 2013-07-08 20:30:59 »
Scena 2 - Uno sguardo rubato e una parola gentile

Quale che fosse il motivo, nei giorni successivi vidi il bushi sempre più spesso. Lo incrociavo nei corridoi, lo scorgevo nei giardini… sembrava che i miei occhi non potessero fare altro che trovarlo.
Dovevo smettere di comportarmi così. Non era consono al mio ruolo, né al mio rango, lo sapevo.
Eppure…
Assorta in tali riflessioni, vidi Oharu percorrere il sentiero innevato verso il tempio. Non mi vide e io non feci nulla per rendere nota la mia presenza. Sembrava che la giovane figlia del mastro pellaio capitasse al tempio sempre più spesso ultimamente, e non era la sola: persino Higurashi-san, la padrona dell’onsen, era venuta più di una volta a portare offerte agli Dei… e doni al nostro ospite.
Fissai lo sguardo sul cielo plumbeo e sui primi fiocchi della giornata. Gli Dei sembravano indecisi e la neve era ancora quella candida e soffice dei primi giorni d’inverno, bianca come le vesti del samurai sconosciuto… scossi la testa e presi un lungo respiro nell’aria fredda. “Che cosa mi prende..?”, né il cielo né la brezza mi risposero, ma l’eco dello sgradevole sentimento che sentivo lambirmi l’animo ritornò prepotentemente sentendo Oharu chiedere del bushi a una delle sacerdotesse.
La nonna apprezzava molto Oharu, riteneva fosse una giovane di buon cuore, molto devota alla famiglia e agli Dei, una brava ragazza che sarebbe stata un giorno un’ottima sposa per un giovane fortunato. Anche a lei, come ad altri tra i bambini del villaggio, aveva insegnato le basi della lettura e della scrittura; si sarebbe quasi potuto pensare che eravamo cresciute insieme, io e lei.
Crescendo però mi ero allontanata dal mondo dei miei coetanei per approfondire gli studi come futura sacerdotessa ed erede della nonna, avevo così perso molta della confidenza che avevo avuto con lei, ma… questo non mi giustificava di certo. Al contrario.
Provare simili sentimenti era profondamente sbagliato da parte mia, non faceva che sottolineare come fossi ancora immatura e immeritevole dell’onore di servire gli Dei.
Dovevo purificare in qualche modo la mente e lo spirito, e il solo luogo che poteva aiutarmi era la cascata dei petali bianchi.
Indossai velocemente la sopraveste, senza curarmi di prendere un copricapo. Avevo sempre amato la carezza della neve sulla pelle.
Non impiegai molto a raggiungere la mia meta. Conoscevo tutti i sentieri e avrei potuto percorrerli a occhi chiusi in qualsiasi stagione, ma nonostante questo non potevo dire di conoscere davvero la montagna e i fitti boschi che circondavano il villaggio; avevo come la sensazione che vi fossero angoli di paradiso nascosti appena oltre il mio sguardo, tanto irraggiungibili quanto desiderati, bramati come soltanto la promessa di un ignoto piacere poteva essere.
La neve morbida, di un candore abbacinante, accarezzava i calzari e l’orlo delle vesti sfiorandoli a malapena, quasi non avvertivo la fredda ed esitante carezza dei fiocchi sul viso. Ogni passo mi faceva sentire più vicina alla serenità, ogni respiro mi calmava più del precedente, finché ben presto udii il cristallino suono della cascata.
Nessuno strumento avrebbe mai potuto eguagliare la melodia perfetta dell’acqua; quella degli uomini, dopotutto, non era che il pallido riflesso della musica degli Dei.
Sedetti in ginocchio nella neve, sempre nello stesso luogo ogni volta, ritrovandomi quasi immediatamente a seguire sull’acqua i riflessi della luce che tanto mi erano familiari.
L’accenno di un sottile strato di ghiaccio era comparso ai margini del laghetto, tuttavia l’acqua non ghiacciava mai completamente grazie alla cascata e i piccoli pesci koi non avevano nulla da temere, ben abituati oramai al clima rigido. Li osservai rincorrersi dove l’acqua era poco profonda finché non avvertii il bisogno di alzare lo sguardo.
Era lì. Di fronte a me, dalla parte opposta del laghetto, il mantello di pelliccia sulle spalle ma anche lui senza copricapo, i capelli nerissimi e brillanti nel bianco che lo circondava. Per un momento parve assoluto e irraggiungibile come sarebbe stato un kami dei ghiacci.
Un pensiero, quello di non poterlo raggiungere, che per un attimo mi strinse dolorosamente il cuore.
Mi salutò senza mostrare alcuna sorpresa, tanto che mi domandai se in qualche modo sapesse che mi avrebbe trovata qui.
Sedette a poca distanza, anche lui fissando le lievi increspature sulla superficie. Il silenzio tra noi era interrotto soltanto dall’acqua, ma non era affatto sgradevole: era come se entrambi fossimo lì per lo stesso motivo, c’era qualcosa di… giusto che non sapevo come spiegare, nemmeno a me stessa.
Il bushi allungò una mano ad accarezzare l’acqua. Sfiorò la superficie con la punta delle dita, apparentemente senza provare alcun fastidio per la temperatura dell’acqua, che pure sapevo essere gelida. I riflessi della luce tremarono, sfiorati dal suo tocco, rincorsero le sue dita come se non volessero lasciarle, era… era come una danza leggera tra la luce e l’acqua. Distogliere lo sguardo fu difficile.
Immersi entrambe le mani nell’acqua lentamente, come non volessi disturbarne i riflessi. Intorno a noi la neve creava l’illusione di un mondo purificato da ogni male.
Alzai gli occhi a seguire la lenta discesa di un candido fiocco di neve, quel singolo frammento di perfezione era unico e sarebbe stato diverso da ogni altro, una bellezza infinita e pericolosa come il ghiaccio che era la sua natura.
L’acqua che mi lambiva i polsi era gelida come l’abbraccio dell’inverno, eppure mi trovai a desiderarne il contatto; c’era qualcosa… qualcosa che rendeva quel momento un istante di potere.
Sollevai le mani a coppa, portando con me un po’ dell’acqua del lago ad accogliere il fiocco di neve che i miei occhi non avevano ancora lasciato: il cristallo di neve galleggiava sfiorando appena la superficie, senza disfarsi, non ancora… sapevo che lui mi seguiva, era come se potessi sentire il suo sguardo. Volevo mostrargli la perfezione del cristallo di neve perché in essa vedevo il suo riflesso.
Soltanto quando mi resi conto di questo pensiero alzai lo sguardo.
I suoi occhi incatenarono i miei in un frammento d’istante, un momento eterno in cui a rallentare era il respiro stesso del mondo. Mi sentii affondare, mi lasciai andare. Sapevo… no, sentivo che alcun pericolo avrebbe mai potuto sfiorarmi.
Ma… potevo farlo?
Una sacerdotessa consacra sé stessa agli Dei. Una sacerdotessa non esiste per sé, ma per la sua gente. Potevo io essere prescelta dagli Dei nonostante…
“Non temete il freddo?”, la sua voce richiamò i miei pensieri, ma spezzò anche l’eternità del cristallo. Lentamente liberai l’acqua che gli era stata madre e tomba al contempo, mi concentrai sulla carezza purissima che scorreva tra le mie dita.
“No. Conosco ciò che può fare, pertanto evito la sua ira. Ma senza di esso questo…”, accennai alla cascata e al lago, alla neve che ci circondava, alla magia dell’istante appena trascorso che ancora mi bruciava il cuore, “non sarebbe possibile. Come potrei ignorare tanta bellezza soltanto per timore?”.
Sorrise sollevando la manica dell’haori fino alla spalla, rivelando un braccio saldo come il ramo di una giovane quercia eppure all’apparenza levigato quanto il ghiaccio. Lo immerse completamente nell’acqua senza che la sua espressione si alterasse minimamente, aveva visto qualcosa sul fondo e lo afferrò con la sicurezza di un falco.
Sollevò il braccio e mi porse il pugno chiuso. La sua pelle non mostrava il minimo segno di disagio per il contatto con l’acqua gelida.
“Ho parlato a lungo con tua nonna. Dice che non hai ancora deciso di consacrarti agli Dei e si domanda perché”, non aprì il pugno né lasciò i miei occhi. Non mi aveva domandato nulla, come se potesse leggere le risposte nel mio sguardo.
Avevo sbagliato nelle mie considerazioni poco prima: non era qualcosa ad avere potere, ma qualcuno. Il samurai dallo sguardo d’ossidiana aveva lo stesso misterioso fascino della neve ai miei occhi.
“Diventare una sacerdotessa è un onore che non sono sicura di meritare”, risposi con la verità alla domanda che lui non aveva posto, ma che ogni giorno sentivo echeggiare nel mio spirito. “Spesso la via che si dipana ai nostri piedi non è chiara come lo vorremmo”, tacqui qualche istante riflettendo attentamente prima di continuare, “e nessun altro può vederla per noi”.
Fu allora che aprì il pugno a rivelare un piccolo ciottolo di ambra, levigato dalle acque della cascata fino alla brillantezza di un gioiello. Lo presi lentamente dalle sue mani e vidi che al suo interno era racchiuso un piccolo scarabeo smeraldino, la bellezza di quella goccia di ambra con il suo tesoro racchiuso all’interno era straordinaria e preziosa come non avrei saputo dire.
Incantata, la osservai per un lungo momento prima di restituirgliela.
“Un tesoro può essere nascosto dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo”, non lasciò mai i miei occhi mentre parlava e fui soltanto vagamente consapevole del ritorno dell’ambra alle acque del lago.
“Oppure può essere esattamente dove lo si cerca”, con la mano destra scostò delicatamente la neve che stava tra noi fino a scoprire il terreno sottostante, liberando ai miei occhi un singolo perfetto fiore bianco.
Come facesse lui a sapere che l’avrebbe trovato proprio in quel punto, come potesse un fiore tanto delicato essere sopravvissuto al freddo abbraccio della neve invernale… ogni interrogativo perse importanza, solo i suoi occhi, soltanto la sua voce…
Quanti segni potevo concedermi di vedere?
“Dovresti riflettere su questo”, mi sorrise ancora e si alzò per tornare al villaggio. Non riuscii a lasciarlo andare finché gli alberi non lo nascosero alla mia vista.
Restai alla cascata ancora qualche tempo, facendo ciò che il bushi aveva consigliato, finché la luce non iniziò a scemare. Prima di tornare però mormorai una preghiera e raccolsi il fiore per conservarlo tra le pagine del sutra del cuore, quello che sempre accompagnava i miei passi. 
« Ultima modifica: 2013-07-08 20:38:29 da Giulia Cursi »
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Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #2 il: 2013-07-09 19:40:13 »
Scena 3 - Un momento condiviso

La neve aveva iniziato a cadere con maggiore insistenza da un paio di giorni. La nonna non ne parlava, ma sapevo che era preoccupata per qualcosa legato alla minaccia.
La minaccia era il nome che nel villaggio si dava al pericolo che incombeva da mille anni sulla montagna, al motivo per cui era stato edificato il tempio: Sesshoumaru, il demone lupo delle tempeste.
Sempre, all’inizio della stagione invernale, la nonna e gli abitanti del paese si facevano più tesi e silenziosi; d’estate, quando il sole brillava alto e caldo sulle chiome degli alberi, era più facile pensare che fossero soltanto storie per spaventare i bambini.
D’inverno era diverso. Si temevano i segni e come sacerdotessa sarebbe stato mio compito vigilare su di essi, custodire il tempio significava custodire il villaggio e il sigillo del demone.
Questo compito però apparteneva ancora alla nonna. Il mio per ora era studiare, prepararmi a succederle e… custodire Tessaiga certamente. Secondo la tradizione era la spada che aveva sigillato Sesshoumaru nei tempi antichi, se il peggio fosse accaduto forse la Lama dei Venti avrebbe nuovamente salvato il villaggio, a patto di trovare una mano degna a brandirla.
“Sono soltanto strumenti…”, mi tornarono alla mente le parole del samurai sulle armi. Se davvero avesse avuto ragione, allora Tessaiga da sola non sarebbe stata sufficiente se fosse accaduto il peggio. Mi chiesi se la nonna lo sapesse e se fosse in ansia, all’inizio di ogni inverno, proprio per questa ragione.
Nei giorni successivi al nostro incontro alla cascata avevo riflettuto attentamente su quello che aveva detto il bushi. Difficilmente, in effetti, ero stata in grado di pensare ad altro, e sempre soltanto per poco, il tempo strettamente necessario a svolgere al meglio i miei compiti.
La sua voce mi seguiva nei ricordi e ne rincorrevo l’eco persino nei sogni…
Non avevo ancora preso la decisione di consacrarmi agli Dei pur preparandomi a quel momento da tutta la vita. Non avevo mai davvero considerato alcuna alternativa, sapevo che la nonna voleva questo per me ed ero sempre stata convinta di volerlo io stessa, solo che… ora che il momento era arrivato, mi ero scoperta indecisa e insicura.
E c’era lui. Lui che sembrava così vicino e così distante al contempo.
Raramente vedevo sollevarsi la malinconia che gli velava lo sguardo, ma quando accadeva era come se il mondo stesso diventasse più brillante, come se il mio cuore si facesse immediatamente più leggero. Avrei voluto sapere il suo nome, ma non ero nella posizione di fare una simile domanda, non ancora.
Troppi pensieri affollavano la mia mente, troppe riflessioni senza fine. E il silenzio della biblioteca… mi assordava.
Finii in fretta di riporre i manoscritti e i sutra, lasciando per ultimo quello del cuore. Il fiore che lui aveva svelato si era conservato perfettamente tra le sue pagine; lo sfiorai dapprima con la punta delle dita, poi lo sollevai aspettando quasi di avvertirne ancora il profumo.
Così leggero da essere quasi privo di consistenza, eppure bello in modo inenarrabile… prima ancora di rendermene conto ne sfiorai i petali con un bacio.
Aprii gli occhi all’improvviso (quando li avevo chiusi?) e riposi il fiore al suo posto, intimamente turbata dall’aver completamente perso il controllo dei miei pensieri. Non era mai accaduto prima, non così.
Sentivo il bisogno di uscire, forse l’aria fredda del tardo pomeriggio avrebbe calmato il mio spirito, forse anche la musica l’avrebbe fatto.
Presi con attenzione lo shamisen dal suo ripiano e uscii.
Avrei meditato lasciando che la mia consapevolezza fluisse con le note dello strumento, il giardino di pietra sarebbe stato il luogo perfetto dove ricercare l’armonia.
Ormai avrei dovuto saperlo. Come se nel desiderare l’aria limpida e fredda evocassi la sua immagine… lui era nel giardino, al riparo dalla neve, sotto la tettoia.
Sembrava intento a scrivere qualcosa, probabilmente dei versi a giudicare dall’espressione assorta ma distesa  del suo viso. Lo osservai senza lasciare il portico, temevo di disturbarlo e… volevo continuare a guardarlo, solo per un altro momento: la mano teneva il pennello con la stessa aggraziata sicurezza con cui l’avevo visto maneggiare le armi, era evidente che avesse grande familiarità anche con l’arte della calligrafia.
“Per lui è naturale”. Non ne ero affatto sorpresa, mi domandai se avrei dovuto esserlo.
Ad un tratto il pennello smise di scorrere. Le parole sembravano sfuggirgli. Soltanto allora percorsi il sentiero che attraversava il giardino lentamente, andando a sedere a rispettosa distanza dal bushi. Non volevo interrompere le sue riflessioni, ma aiutarlo; forse la musica avrebbe richiamato alla sua mente le giuste armonie.
Non dicemmo nulla, il nostro fu un saluto silenzioso fatto più di sguardi che di cenni. Presi tra le mani lo shamisen, forse avrei dovuto trovare le mie dita troppo fredde per suonare, ma non fu così: il freddo intorno a noi era un manto e non una bufera. Iniziai a suonare quando lui sorrise.
Una dopo l’altra, le note lasciarono il mio cuore lungo le corde dello strumento, riempiendo l’aria intorno a noi come non avevano mai fatto prima.
La nonna diceva che gli Dei mi avevano concesso molti doni, tra i quali la musica, ma… sapevo di non aver mai suonato nulla di nemmeno lontanamente simile, non avevo mai messo così tanto di me stessa in una melodia.
Il bushi mi osservò per alcuni istanti, quindi chiuse gli occhi lasciando che le note lo trasportassero. Ne fui lieta; ero felice che apprezzasse a tal punto ciò che stavo suonando e poi… sapevo che non avrei potuto reggere ancora a lungo il suo sguardo.
Quando le note si spensero e l’eco delle ultime scomparve nell’aria fredda, mi resi conto che aveva terminato di scrivere: avevo avuto ragione, erano indubbiamente versi.
Ripiegò la  pergamena e mi sorrise di nuovo, la sua voce profonda come i rintocchi di un’arpa, “Grazie, la tua musica ha guidato i miei pensieri”. Lo ringraziai con un lieve inchino, “Trovi strano che un guerriero scriva versi?”, mi osservò con attenzione, sembrava che cercasse la risposta alla sua domanda oltre le parole.
“L’arte è un linguaggio e un cammino verso l’elevazione. Le parole, le note, i gesti… sono passi dello spirito lungo questo cammino. Questo è ciò che io credo mio signore, quindi no, non trovo affatto strano che componiate, invero mi avrebbe forse stupita il contrario”, apprezzò quello che udì nella mia voce o forse quello che lesse nei miei occhi perché sorrise nuovamente, e io con lui.
Con gesti lenti e precisi ripose il necessario per scrivere ed estrasse un involto di seta da sotto l’haori, rivelando un flauto di betulla, candido come la neve.
“Suona con me”, avevo amato suonare per lui, ma quella gioia quasi scompariva paragonata a quella che provai a suonare con lui.
Il flauto circondava le mie note, me, in un abbraccio infinito e potente, talvolta prendendomi come per mano lungo inesplorati sentieri, talvolta stringendomi come non dovesse mai più lasciarmi.
Oltre il riparo della tettoia la neve scendeva copiosa, un impalpabile manto bianco a lasciare il mondo fuori, lontano da un momento che sarebbe stato soltanto nostro per sempre, mio e dell’uomo che mi stava rubando il cuore senza che potessi oppormi in alcun modo.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #3 il: 2013-07-10 20:06:49 »
Scena 4 - Una presentazione

“Kagura”, la nonna attese che sollevassi il viso da Tessaiga per essere certa di avere tutta la mia attenzione, “Si Oba-sama?”.
“Non si può imprigionare a lungo il vento in una giara o si romperà”, mi stava chiedendo di parlare con lei, di confidarle cosa si agitasse nel profondo del mio animo, temeva che soffrissi. Non avrei saputo nemmeno come accennare a… a cosa poi?
Annuii e la ringraziai con lo sguardo, le ero immensamente riconoscente, ma non potevo parlarle di qualcosa che nemmeno io sapevo come definire, come potevo essere certa che fosse amore? Dello straniero non sapevo nemmeno il nome e… e non aveva alcuna importanza, dubitavo fortemente di essere presente nei suoi pensieri e… la nonna non poteva aiutarmi a lenire questo dolore, nessuno poteva.
“Vi sono giare più resistenti di altre Oba-sama”, la nonna annuì e tacque osservandomi riprendere a lucidare la lama della katana.
“Oggi Higurashi-san è tornata a pregare per la sua famiglia. Vogliano gli Dei darle conforto nel suo dolore. Tu cosa ne pensi nipote?”, una prova? Come… non poteva avere davvero…
Feci molta attenzione a non lasciare trasparire nulla nella mia espressione e a mantenere il tono neutro, “Credo che l’inverno le ricordi la prematura scomparsa dei genitori. Le nostre preghiere possano unirsi alle sue e raggiungerli”, lei proseguì annuendo, “Sembrano tutti molto incuriositi dal nostro misterioso ospite. Pensa che persino la giovane Oharu ne sembra assai colpita”.
Dovetti ricordare a me stessa di non alterare nemmeno il ritmo del respiro, ora avevo la certezza che la nonna mi stesse mettendo alla prova, “Davvero? E’ comprensibile vista la sua giovane età”.
Un errore, “Lo credi? Eppure non ha visto soltanto il tuo primo inverno”, lentamente rinfoderai la katana sacra senza sollevare lo sguardo, “Io… per me è diverso Oba-sama”.
Fu la sua mano a sollevarmi il viso, sfiorandomi il mento affinché non potessi lasciare i suoi occhi, non vidi disappunto nel suo sguardo, soltanto affetto e preoccupazione, “Davvero lo è Kagura?”.
Non avrei saputo rispondere e lei lo sapeva. Mi accarezzò il viso e sorrise, prima di riprendere a parlare come se non avesse appena svelato il segreto del mio cuore, “La prima volta che vidi i tuoi occhi seppi di aver appena ricevuto il segno più importante di tutta la mia vita”.
Lo sapevo, me l’aveva ripetuto molte volte. Non avevo mai incontrato nessuno che avesse gli occhi d’acqua, mentre dei miei genitori non sapevo nulla, le mie origini un mistero conosciuto soltanto dagli Dei.
Mi abbracciò senza aggiungere altro, non ce n’era bisogno. Quindi mi lasciò nella sala dei venti, in compagnia dei miei pensieri.
Riposta Tessaiga, aprii il sutra del cuore ad osservare il tesoro che sapevo esattamente dove cercare. Dovevo ancora dirimere molti dubbi, ma qualcosa non sarebbe mai cambiato: il mio nome innanzitutto, la nonna mi aveva chiamata Kagura, fiore d’inverno, perché mi aveva trovata ancora in fasce davanti alla porta del tempio all’inizio della stagione delle nevi. Nell’insolito colore dei miei occhi vide un segno, ‘il’ segno, e mi adottò senza esitazione.
Nel nome la nonna era convinta stesse un frammento del destino di ognuno di noi. Io ero nata d’inverno, cresciuta all’ombra delle montagne dove la neve giunge assai presto e se ne và altrettanto tardi, ma… se davvero ero un fiore, potevo dire di essere sbocciata?
Agli occhi della mente rividi la mano del samurai scostare la neve con delicatezza, seguii di nuovo i suoi movimenti mentre liberava il fiore bianco da quel gelido abbraccio. Un fiore che senza la sua mano sarebbe rimasto imprigionato fino alla fine della sua esistenza.
Rabbrividii per la forza di quel pensiero a cui temevo di abbandonarmi, ma che non potevo lasciare.
Era la prima volta che lo cercavo, la prima volta che permettevo a me stessa di farlo. Tra le mani stringevo il sutra del cuore come fosse una sorta di scudo, mi rimproverai per un atteggiamento tanto immaturo da parte mia: se non mi fossi calmata immediatamente, avrei finito per comportarmi da sciocca e fare qualcosa di sconveniente o peggio, irrispettoso. Ed era l’ultima cosa che volessi.
Prima di bussare presi un lungo e profondo respiro, il controllo di me stessa era qualcosa che non mi era mai mancato, dovevo solo concentrarmi e…
“Avanti”.
Mi era mancata la sua voce.
Aprii la porta, ma non entrai: se fosse stato impegnato avremmo parlato in un’altra occasione.
“Perdonate mio signore, vorrei parlarvi se me lo permettete. Posso tornare in un altro momento se preferite”, non riuscii a non guardarlo in viso, forse non era consono ai rispettivi ruoli, ma i suoi occhi… sentivo la mancanza tanto del suo sguardo quanto della sua voce.
Non sembrava irritato, anzi, mi sorrise, “Prego, entra pure”.
Richiusi la porta alle mie spalle e volsi di nuovo lo sguardo su lui: gli abiti bianchi che portava sempre erano di fattura splendida, ma non sarebbero mai parsi altrettanto magnifici indossati da chiunque altro. “Siedi con me, stavo per bere del thè. Ne vuoi?”, feci come suggeriva e sedetti di fronte a lui, al tavolo dove erano già disposti gli utensili per la cerimonia.
Gli versai la bevanda e notai, ancora una volta senza alcuna sorpresa, che il bushi conosceva il rito alla perfezione. Il mondo esisteva ancora, ma era altrove, niente altro aveva importanza.
“Mi fa piacere che tu sia qui, grazie per aver bevuto con me”, sorrise e lo ricambiai con un cenno prima di rispondere, “Sono io a dovervi ringraziare mio signore. Volevo parlarvi a proposito di ciò che avete detto mentre eravamo alla cascata dei petali bianchi”. Annuì e si fece ancora più attento, ma la sua postura restò rilassata, gli occhi fissi nei miei.
“Volevo ringraziarvi del vostro consiglio. L’ho seguito e in questi giorni ho riflettuto a lungo sul suo significato. Le vostre parole sono state molto preziose per me”, aprii lentamente il sutra, lasciando gli occhi dell’uomo soltanto per prendere il piccolo fiore dalle pagine del testo.
“Vi prego di accettarlo insieme alla mia riconoscenza”, gli porsi il fiore e nel prenderlo sfiorò le mie dita per un istante, e poi per un altro ancora. La sua mano era fredda, ma la rispettosa dolcezza di quel gesto mi colpì diritta al cuore.
“Il mio nome è Kagura”, lo dissi che le nostre dita ancora si sfioravano, lui sorrise di nuovo e prima di ritirare la mano rispose alla domanda che non gli avevo fatto a parole, “Il mio nome è Yato Minamoto. Quando divenni un bushi, il mio sensei mi diede il nome Kagematsu. Tu, Kagura, puoi chiamarmi come preferisci”.
Il mio nome pronunciato dalla sua voce mi diede un brivido inaspettato.
“Kagematsu è un nome di potere, mia nonna ritiene che il nome racchiuda il destino”, osservò per alcuni istanti il piccolo fiore che gli avevo dato, assorto e improvvisamente malinconico, quindi sollevò nuovamente lo sguardo a cercare il mio, “E tu cosa credi Kagura?”.
Drago di ghiaccio. Un nome potente come pochi altri, ma che suonava terribilmente pesante. Sarebbe stato troppo per chiunque, ma non per lui, non per Yato. Di questo mi scoprii certa oltre ragione.
“Io credo che il destino stia nelle scelte che compiamo, ciò che siamo sta nei nostri pensieri e nelle nostre azioni, il nome ha il potere che noi stessi gli diamo. Kagematsu è un nome meraviglioso e pesante al contempo. Se me lo permettete, sarete Yato per me”.
Mi accorsi troppo tardi del terribile errore che avevo fatto. Una simile sfrontatezza da parte mia era imperdonabile! Non avevo alcun diritto di chiamarlo con il suo nome di battesimo senza alcun titolo!
Prima che potessi scusarmi per questo, lui sorrise di nuovo come se la malinconia si fosse sollevata dai suoi occhi e mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, “Grazie Kagura”.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #4 il: 2013-07-12 22:28:34 »
Scena 5 - Un segreto rivelato


“Perdonate Sachiko-san. Kagura, è successo qualcosa alla cascata. E’ ghiacciata all’improvviso in pochi istanti”. Non si era tolto le scarpe e nemmeno il mantello di pelliccia, anche soltanto da quei particolari era evidente l’urgenza del problema.
Guardai la nonna e vidi sul suo viso un’ombra che riconobbi: era l’antica paura della minaccia, temeva fosse un segno nefasto legato alla tensione che avvertiva nel sigillo del demone Sesshoumaru. Il motivo per cui ci trovavamo riunite tutte a pregare nella sala dei venti.
Yato si era fatto annunciare in fretta, nei suoi occhi lessi la stessa tensione che probabilmente c’era nei miei.
“Kagura, prendi il necessario. Sarai tu ad operare l’esorcismo”, annuii alla richiesta della prima sacerdotessa e mi alzai immediatamente, non c’era tempo da perdere.
“E Kagura… fa attenzione”, la voce vibrava di preoccupazione, avrei voluto rassicurarla, ma potevo soltanto sperare di essere all’altezza del compito. Stavo per replicare quando Yato mi precedette, “Andrò con lei”, lo disse come se fosse una certezza ovvia: nonostante nulla lo obbligasse a mettere in gioco sé stesso, Yato sarebbe venuto con me.
A sottolineare la sua decisione slacciò il mantello e lo lasciò su uno sgabello nel corridoio appena fuori dalla sala. Sarebbe stato un intralcio per i suoi movimenti, in caso di battaglia. Trassi esempio e risolutezza dal suo coraggio, “Farò ciò che è necessario al meglio delle mie capacità, non temete”.
Mi inchinai velocemente e lasciai la sala seguita dappresso dal bushi. Non sapevo dire quanto la sua presenza fosse rassicurante per me, era come se la paura con la quale avevo imparato a convivere, la paura di Sesshoumaru, stesse inesorabilmente perdendo presa sul mio spirito, come se la sola vicinanza di Yato bastasse a disperderne l’oscurità.
Presi la sacca con gli incensi e il necessario per accenderli, le boccette degli oli e dei sali sacri, e infine la sopraveste cerimoniale. Per ultimo sistemai nell’obi un lungo pugnale simile al tanto, l’unica arma nel cui uso venivano addestrate le sacerdotesse. Non era molto se paragonato alle armi di Yato, e ancor meno se paragonato alle sue capacità guerriere, ma se davvero fosse stato necessario combattere, per quanto indegna di battermi al suo fianco, non mi sarei tirata indietro.
Uscendo dal tempio, nell’aria fredda del pomeriggio, stavo per ringraziarlo per essersi offerto di accompagnarmi quando vidi sotto uno dei portici la padrona dell’onsen, Satoko Higurashi. Dalla sua espressione spaventata dedussi che sapeva del problema, dagli abiti e da come guardava Yato capii che lo sapeva perché c’era anche lei, insieme a lui alla cascata.
Mi vergognai immediatamente della meschinità dei miei pensieri in un momento simile. Strinsi appena più forte la tracolla di pelle della sacca e accelerai il passo; risposi al saluto della donna con un cenno quando le passai accanto, ma non riuscii a trovare la voce, e nemmeno lungo il tragitto verso la nostra meta.
Un affannoso respiro dopo l’altro cercai soltanto di concentrarmi sul mio compito e ignorare le sorde sferzate di dolore che mi stringevano il cuore.
Man mano che ci avvicinavamo alla cascata, la temperatura dell’aria si faceva sempre più fredda, innaturalmente rigida, la neve aveva smesso di cadere per il gelo e quella a terra scricchiolava, ghiacciata, sotto i calzari.
Non avrei mai potuto compiere un dovere sacro come un esorcismo se il mio cuore non fosse stato purificato dai cattivi pensieri. Non avevo più molto tempo per riuscirvi, ancora poco e saremmo arrivati.
Yato era un samurai, un uomo gentile e affascinante che indubbiamente conosceva molto del mondo, in lui sentivo una forza che non avevo mai avvertito prima, era… era troppo. Troppo per me.
Non sarei mai stata alla sua altezza. Non ero affascinante come Higurashi-san, e neppure spontanea come Oharu. Non avevo alcun diritto di provare risentimento nei loro confronti, mentre il dolore che sentivo per questa consapevolezza avrei dovuto imparare a gestirlo.
Erano brave persone che meritavano di essere felici, Higurashi, Oharu… e Yato era…
Yato era nel mio cuore, ne sarebbe stato in eterno il custode pur senza saperlo mai.
Io invece avevo un compito. La nonna e la gente del villaggio avevano fiducia in me, non avrei deluso loro… e nemmeno Yato.
Scostai i capelli dal viso e presi un lungo respiro. Ero consapevole dei miei limiti e pronta alla prova. Di fronte a noi l’ultima svolta del sentiero, oltre la macchia di alberi avremmo visto il laghetto e la cascata.
Il ghiaccio aveva oramai preso possesso delle acque, potevo vederlo avanzare a occhio nudo. Una volontà maligna aveva piegato la sacralità della natura con il solo intento di strangolare la vita in essa. Strinsi le mani a pugno, mentre un’ira fredda si faceva strada nella mia mente.
Accanto a me, Yato controllò che la katana fosse libera facendola scorrere nel fodero per un paio di dita, sembrava teso quanto me e questo era inconsueto: erano davvero poche le persone in grado di avere una simile percezione delle auree, come futura sacerdotessa ero stata addestrata a questo, ma non sapevo che anche ai samurai venissero impartiti insegnamenti simili.
Eppure non credevo fosse legato al suo addestramento. Non sapevo spiegarmene il motivo, ma ero convinta che una simile dote in lui fosse innata.
Focalizzai ira e concentrazione sul compito che mi aspettava: disposi il necessario di fronte a me con movimenti precisi, ignorando l’ostilità nella presenza malvagia che infestava la cascata. Amavo quel luogo e non avrei lasciato che venisse strangolato dal male.
Mi inginocchiai e iniziai le preghiere d’invocazione. Immediatamente il gelo del ghiaccio innaturale cercò di mordermi dolorosamente, voleva farmi desistere, ma non ci sarebbe riuscito.
La solida presenza di Yato, accanto a me, mi dava tutta la sicurezza di cui potessi avere bisogno.
Il rito durò almeno un’ora, ma alla fine la presenza malvagia cedette e  abbandonò la presa. L’acqua tornò a scorrere nel laghetto nuovamente libero e io trassi un profondo sospiro di sollievo.
“Se n’è andato”, annuii, “Grazie Yato”. Sedette accanto a me, visibilmente più calmo, ma con uno sguardo interrogativo negli occhi, “Non ho fatto nulla. Sei stata tu ad eseguire il rito, ed è stata la tua forza spirituale a liberare la cascata”.
“Davvero? Eppure se non ve ne foste accorto e non foste venuto a chiamarmi, l’acqua sarebbe ghiacciata completamente e…”, restai in silenzio alcuni istanti, immergendo la mano nell’acqua a tranquillizzare i piccoli pesci koi, “e loro sarebbero morti. Come  potete non vedere l’importanza del vostro aiuto?”. Per un momento mi parve sorpreso, ma fu solo un istante e forse un inganno della luce e della tensione del rituale, tuttavia… amai quell’espressione e  ancor di più il sorriso che la seguì.
Dopo lunghi istanti di piacevole silenzio, il suo sguardo prese a vagare sulla superficie dell’acqua, senza essere però davvero lì, “Kagura, il gelo si sta facendo più intenso”. La malinconia che talvolta gli velava lo sguardo si fece molto più profonda, il mio cuore soffriva per lui e avrei dato qualsiasi cosa per potergli restituire il sorriso, “Il freddo di cui parlate… è intorno a noi, o nei vostri ricordi?”.
Sollevò gli occhi nei miei, vi lessi sorpresa, fiducia e il riflesso di una decisione molto importante che aveva appena preso.
“Se lo fosse… vorresti ascoltare?”, “Si”, era talmente vero che non avrei mai saputo spiegargli quanto.
“Io non ho mai incontrato nessun avversario alla mia altezza”, non c’era boria alcuna nelle sue parole, esprimeva una semplice verità e non dubitai un istante di ciò che diceva.
“Eppure non ne ho avuto il rispetto. Nessuno è mai stato in grado di battermi, ma il rispetto per questo non è venuto da nessuno se non dal mio sensei”, non gli misi fretta né lo interruppi, prestando la massima attenzione alle sue parole, “Questo perché… Kagura”, il suo sguardo affondò nel mio con rinnovata intensità e… lo vidi lentamente cambiare, l’ossidiana che tanto mi affascinava mutò il suo colore nel riflesso argentino del ghiaccio. L’aria si fece più fredda mentre sul suo viso apparivano segni di un blu profondo, tatuaggi che scorrevano lungo il collo come fossero fatti d’acqua.
“Kagura… io non sono un essere umano, non completamente”, la sua voce non era cambiata, era la stessa come anche il suo sguardo. Non avrei potuto lasciare i suoi occhi o il suo viso nemmeno se lo avessi desiderato, e di certo non lo volevo… più ancora che da quei segni così puri ed eleganti, più ancora che dal colore dei suoi occhi, era la fiducia sconvolgente nel suo sguardo a farmi sentire importante come mai prima di allora, ne ero affascinata ogni istante di più.
“Mio padre è… era un oni. Un demone del ghiaccio. Mia madre non… non lo accolse di certo, tuttavia… mi allevò comunque, donandomi ogni cosa in suo potere. E’ stata per me la migliore delle madri nonostante… ciò che sono”, avrei voluto piangere per tutta la sua tristezza, versare io le lacrime che lui non avrebbe potuto mostrare, mi trattenni soltanto perché il racconto non era terminato.
“Quando seppi la verità e fui abbastanza cresciuto, cercai il demone che mi aveva generato, lo sfidai e lo uccisi. La lotta fu… difficile, ma vinsi, quello come tutti gli scontri in seguito. Il mio sensei mi diede nome Kagematsu per rispetto delle mie capacità, ma fu il solo. Per tutti gli altri sono soltanto un mezzo demone graziato del suo sangue impuro, non un vero guerriero, qualunque fosse il risultato sarebbe sempre stato colpa dell’eredità di un simile padre”.
Più ancora dell’amarezza, fu lo scoramento nel suo tono a colpirmi: da qualche parte nel suo animo, Yato iniziava a credere che quelle voci avessero ragione. Qualcosa di semplicemente impossibile.
“No”, non sapevo se potevo permettermi tanto, ma avrei fatto qualsiasi cosa per vincere la malinconica solitudine che lo circondava. Allungai una mano verso il suo braccio, ma la fermai a mezz’aria, non gli avrei imposto una cosa che…
Per un istante interminabile cessai di respirare, la sua mano raggiunse la mia e la strinse con forza e delicatezza insieme, la pelle era fredda ma non in modo spiacevole, era un freddo puro come la neve che aveva ripreso a cadere dal cielo.
“Questo è ciò che siete, né più né meno, di certo non può essere una colpa Yato. L’identità dei propri genitori non impedisce a un uomo di compiere le proprie scelte, non è una simile eredità a guidare i nostri passi e… non può esserci nessuna colpa nel nascere. Io… sono infinitamente onorata di avervi conosciuto e ringrazio gli Dei per avervi condotto qui”. Forse avevo detto troppo, forse mi ero abbandonata ai sentimenti in modo inappropriato, forse non avevo alcun diritto di parlargli in questo modo, ma… strinse appena più la mia mano e il suo sguardo tornò a tingersi di ossidiana, mentre i segni blu svanirono lentamente.
La sua mano si fece un po’ più calda e un quieto sorriso tornò a illuminargli il volto, “Ti ringrazio Kagura, per ognuna delle tue parole”.
Restammo sospesi in quel momento perfetto per un po’ ancora, prima di tornare al villaggio.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #5 il: 2013-07-13 18:50:55 »
Scena 6 - Un tocco negato

Innamorata.
Non avrei mai pensato che potesse davvero accadere, non a me.
Non era qualcosa che sarebbe dovuto accadere a me, io ero stata cresciuta per diventare una sacerdotessa, non una moglie. E lo avevo accettato da tempo, senza rimpianti: avrei potuto aiutare la gente del villaggio, mi sarei occupata del tempio, avrei seguito con gioia le orme della nonna, eppure…
Eppure, nonostante ne fossi sempre stata convinta, non avevo ancora compiuto il passo della consacrazione. Perché..?
Il suo arrivo aveva preso le mie certezze e le aveva sconvolte, come sembrava ad una prima riflessione, o non aveva fatto altro che compiere qualcosa che semplicemente doveva essere?
Non presumevo nemmeno lontanamente di avere la saggezza necessaria per rispondere a una simile domanda.
Quale che fosse la realtà, non potevo più negare a me stessa la verità.
Vi erano mille e mille ragioni per le quali non avrei mai dovuto cedere ad un simile sentimento: il mio addestramento, i miei doveri, le mie responsabilità, il mio rango troppo umile, la mia inesperienza… nemmeno una volta tuttavia pensai all’eredità di sangue di Yato.
Riflettei a lungo, nei giorni successivi, sulle sue parole, soltanto per scoprirmi se possibile sempre più convinta di quanto gli avevo detto: che condividesse la natura del ghiaccio non aveva importanza, che suo padre fosse un oni non aveva importanza, che i suoi poteri trascendessero probabilmente la mia comprensione non aveva importanza…
Lo amavo. Il suo sguardo infinito, i quieti sorrisi, la voce profonda, la grazia letale e… si, anche gli occhi cangianti e i riflessi blu del ghiaccio sulla pelle. E il coraggio, la forza d’animo e la saggezza e… tutto di lui era Yato. E lo amavo.
Sospirai per l’ennesima volta da che avevo concesso a me stessa di ammettere la verità. Questo non importava: qualunque cosa provassi era ininfluente, il bushi non avrebbe mai potuto ricambiare i sentimenti di qualcuna come me. Non l’avrei messo in una posizione difficile comportandomi da sciocca. Mi aveva accordato la sua fiducia, non l’avrei ripagato con la delusione.
Di certo però avrei dovuto meditare a lungo: che i miei sentimenti per lui restassero un segreto non cambiava il fatto che il mio amore non fosse innanzitutto rivolto agli Dei. Sapevo di non potermi consacrare a  loro senza commettere un sacrilegio, non in quel momento. Restava da stabilire se avrei potuto farlo mai.
Quella mattina il sole brillava nell’aria, mitigando il freddo invernale. Non sarebbe durato a lungo, le nuvole distanti promettevano nuova neve forse già nel pomeriggio; decisi così di approfittare di ciò che restava del bel tempo per meditare alla cascata, un luogo per me sempre più speciale.
Lungo il cammino non potei fare a meno di pensare a come era stato percorrere quel sentiero insieme a Yato, ogni volta in cui era accaduto. C’era qualcosa di indefinibile nel modo in cui il mio spirito si quietava e ogni cosa sembrava esattamente come sarebbe dovuta essere, una sensazione di… perfezione che era un dono e un peso al contempo.
Era giusto che permettessi a me stessa di essere così felice insieme a lui, pur sapendo che non saremmo mai stati insieme? Era giusto permettere ai pensieri di vagare verso un futuro che non sarebbe mai potuto esistere, soltanto per la gioia d’un istante in cui mi concedevo di credervi?
Mi domandai cosa avrebbe detto Yato venendo a sapere di simili riflessioni da parte mia. Avrebbe riso della mia immaturità? Avrebbe forse compatito l’ingenuità di una ragazza incapace di essere all’altezza di ciò che le si chiedeva?
Non lo credevo.
Non pensavo avrebbe mai potuto ricambiare i miei sentimenti, questo no, ma… ero certa che non avrebbe riso di me, che nella sua compassione non vi sarebbe stata alcuna traccia di scherno. Probabilmente avrebbe sofferto per me. Un’ottima ragione, se di altre ancora avessi avuto bisogno, per tacergli una verità così piccola e ininfluente sul corso del fiume della sua vita.
A volte provavo la tentazione di piangere. Ma non durava mai a lungo: sarebbe stato un errore che avrebbe rovinato la bellezza dei ricordi con la tristezza, ed era un prezzo che non avrei pagato per l’illusorio sollievo di un mero istante. Quei ricordi erano troppo preziosi per me.
Forse sarebbe stato più facile, per me, se il bushi non avesse rappresentato l’incarnazione pressoché perfetta di tutto quanto considerassi degno di onore e rispetto, se anche il suo aspetto non fosse stato così tanto affascinante, la forza del suo spirito mi avrebbe comunque attratta con la stessa intensità di una fiamma su una farfalla notturna.
Qualche volta avevo udito frammenti dei discorsi delle donne del villaggio circa i loro mariti, o innamorati, o in generale sul fascino che secondo loro dovrebbe avere un uomo. Alcune tra le mie coetanee sembravano persino più interessate a simili discorsi che a qualunque altra cosa.
Io non vi avevo mai prestato troppo caso, essendo la bellezza del sembiante soltanto un momento,  neppure il principale, nel fiume della vita di ognuno, tuttavia…
Respirai profondamente il profumo della neve e dei boschi, nonostante il freddo sentivo le gote stranamente accaldate e… che Yato fosse bellissimo anche nell’aspetto ai miei occhi, non potevo negarlo. Ringraziai gli Dei per la solitudine di quell’ascesa.
Finalmente udii il gorgogliare cristallino dell’acqua oltre gli alberi. Di certo qualche ora di meditazione mi avrebbe aiutata a mettere ordine nei pensieri e a distogliere l’attenzione da questioni così…
Gli Dei dovevano avere un singolare senso dell’umorismo. O io un pessimo tempismo. Più probabilmente entrambe le cose.
Per un momento rimasi bloccata, letteralmente inchiodata sul posto da ciò che avevo di fronte agli occhi. Non c’era alcuna speranza di riuscire in qualche modo a non arrossire furiosamente.
Yato era immerso nel laghetto, usciva da sotto la cascata e, per quanto l’acqua gli arrivasse ai fianchi era evidentemente nudo.
Solo un momento, poi abbassai di scatto lo sguardo, ancorandolo alle punte dei miei calzari immerse nella neve, eppure continuai a vederlo come se la sua immagine semplicemente non potesse scomparire: l’acqua scorreva sulle spalle ampie, lungo le braccia e il torso evidenziandone i muscoli scattanti sotto la pelle liscia, dove non era solcata dalle cicatrici di chissà quanti combattimenti.
Qualche ciocca di capelli gli ricadeva sul viso, mentre le altre gli accarezzavano il collo solido e ben disegnato sfiorandogli appena le spalle. E i suoi occhi si erano fissati nei miei immediatamente.
Se fosse stato di spalle o se in qualche modo non mi avesse vista, sarei forse potuta tornare indietro e salvare così un brandello di dignità, ma quella possibilità mi era più che mai negata: potei soltanto restare immobile nella neve, arrossita come mai ero stata in tutta la mia vita, senza avere la minima idea di cosa fare o dire per sottrarmi al cocente imbarazzo del momento.
Yato uscì dal laghetto, lo intuii dai suoni perché non corsi nemmeno il rischio di alzare appena lo sguardo, e andò a fermarsi dietro una roccia dove probabilmente aveva lasciato i propri abiti. Non solo avevo disturbato le sue abluzioni, ma per rispetto a me le aveva interrotte.
“Mi-mi dispiace Yato… n-non era mia intenzione disturbarvi e… è meglio che io torni al villaggio, perdonatemi”, mi sarei volentieri morsa la lingua per il balbettio che non ero riuscita a evitare, ma prima che potessi voltarmi e tornare sui miei passi, lui mi fermò.
“No per favore Kagura, resta. E’ a me che dispiace e… se potessi perdonare il modo indecoroso in cui mi hai trovato, mi farebbe piacere parlare con te, se anche tu lo volessi”, era la prima volta in assoluto che lo sentivo così, un’ombra d’imbarazzo nella voce, il tono appena incerto, tanto che mi domandai se anche alcuni dei suoi pensieri non fossero stati simili ai miei.
Azzardai un’occhiata fugace verso la roccia, aveva indossato soltanto l’haori e aveva fatto qualche passo nella mia direzione. Voleva davvero che restassi, l’espressione del suo viso era meno… controllata rispetto al solito. Probabilmente anche la mia doveva esserlo.
Che gli Dei potessero perdonarmi, non volevo andare via.
Annuii esitante e mi avvicinai. L’haori lo copriva, ma non nascondeva né il petto né le spalle e non potei ignorarne le linee dei muscoli tesi. Pensavo di non poter arrossire di più, ma evidentemente sbagliavo.
Sedemmo vicini all’acqua, dove già tante volte avevamo parlato, ma il silenzio in quel momento era tutto fuorché tranquillo. Temevo quasi che potesse sentire il battito martellante del mio cuore contro il petto.
“Siete certo di non voler restare da solo..? Mi rendo conto che…”, scosse la testa più in fretta di quanto avesse mai fatto, osservai le gocce brillanti lasciare i suoi capelli per tornare alle acque del lago, “No..! Io vorrei… mi fa piacere che tu sia qui se… se anche per te è lo stesso”.
Non l’avevo mai visto così, non avevo mai sentito quel tono nella sua voce e… non avrei mai voluto andare.
“Non voglio andare via”, era una verità semplice e… sebbene fossi cosciente di quanto la situazione fosse poco appropriata non riuscivo a ricordarne il perché.
Il suo petto si mosse più velocemente, rincorrendo il respiro che accelerava, vidi gli occhi nei quali ero precipitata mutare fino ad accendersi dei riflessi del ghiaccio. I complicati e affascinanti segni blu dal collo scesero a solcargli il petto e le braccia.
“Davvero vuoi restare?”, vi era un’incertezza tale nella sua voce che mi spezzò il cuore, volevo cancellare qualsiasi timore avesse, scacciare per sempre la solitudine nei suoi occhi, “Si”.
Allungò una mano verso di me, lo sguardo che bruciava nel mio, la tensione nell’aria talmente intensa che non sapevo dove mi avrebbe portata e neppure mi importava, purché fossimo insieme.
Quando con la punta delle dita mi sfiorò il collo avrei potuto piangere, sfiorò lentamente l’incavo della spalla, ma… ad un tratto la sua carezza si fece dolore gelido e improvviso, mi ritrassi di poco più sorpresa che spaventata dal cambiamento.
Nei suoi occhi invece lessi la paura di avermi fatto del male, ritrasse la mano di scatto guardandola come se non la riconoscesse come propria, “Perdonami Kagura! Io non… non volevo e… stai bene?”, l’angoscia nella sua voce mi faceva più male del bruciore ghiacciato sulla pelle.
“Si non è niente, non preoccupatevi sto bene”, qualunque cosa avessi detto non avrei potuto cancellare il senso di colpa dalla sua espressione, eppure non avrei desiderato altro.
“Non succederà più, io mi… controllerò meglio in futuro, te lo prometto”, annuii, ma senza provare alcun sollievo: una piccola ferita non era niente paragonata alla perfezione del suo tocco, e la mia fiducia in lui era completa e totale.
Per restargli accanto avrei accettato di sciogliere il ghiaccio, o di farne parte allo stesso modo. Pregai gli Dei di riuscire a farglielo capire. 
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #6 il: 2013-07-14 17:40:25 »
Scena 7 - Un complimento


La sera seguente Yato rientrò piuttosto tardi al tempio, secondo la sacerdotessa che gli aveva aperto la porta sembrava lievemente incerto sulle gambe, come se avesse esagerato con il sakè. Doveva aver trascorso la serata all’onsen, il liquore di Higurashi-san era noto per la sua purezza.
C’era qualcosa di profondamente strano nell’idea che Yato bevesse tanto da ubriacarsi, trovavo molto difficile immaginarlo.
Anche quella mattina vidi Oharu al tempio. La giovane sembrava sempre più felice ogni volta che l’incontravo, come se i suoi pensieri fossero costantemente altrove… temevo di sapere esattamente dove.
Sospirai profondamente per recuperare almeno un po’ di tranquillità di spirito. La nonna aveva chiesto a Oharu di restare per il pranzo e lei aveva accettato; non dovevo rovinare l’atmosfera del pasto con la mia malinconia.
Tra la spalla e il collo era rimasto il segno della bruciatura ghiacciata: la pelle violentemente arrossata era estremamente sensibile al tatto e avevo dovuto prestare particolare attenzione nel vestirmi. Sarebbero occorsi giorni prima che guarisse del tutto, ma non aveva importanza. Più del dolore fisico era stato il dispiacere negli occhi di Yato a farmi male.
Non avevamo avuto ancora occasione di parlare, lui aveva infatti trascorso fuori l’intera giornata successiva, per rientrare solo a tarda sera, mentre io ero stata particolarmente occupata con i riti al tempio; la preoccupazione della nonna per la tensione nel sigillo non faceva che aumentare.
Forse quel giorno sarebbe stato diverso, ma non avrei insistito se lui avesse preferito fare altro. Neppure se avesse preferito tornare alle terme, o visitare la bottega del mastro pellaio.
Sedetti alla destra della nonna come sempre, di fronte a me Yato e Oharu accanto a lui, quindi le altre sacerdotesse del tempio. Non sarebbe stato educato non sollevare mai gli occhi dal piatto, così mi costrinsi a interagire un minimo con i commensali: fortunatamente non ero mai stata di molte parole e non dovetti sostenere la conversazione. La nonna e il bushi discorrevano su quanto le scelte dei singoli individui influissero sul mondo, lei apprezzava molto gli argomenti filosofici e lo riteneva il modo migliore d’insegnare e imparare al contempo.
La giovane Oharu fu una commensale impeccabile, per quanto non sfuggisse a nessuno il modo in cui rivolgeva timide occhiate al samurai o arrossiva ogniqualvolta lui le si rivolgeva. O forse ero soltanto io a vederlo, forse era soltanto il mio spirito alterato dalla gelosia a leggere tanto.
Rabbrividii all’idea di quanto fossi ancora ben lontana dalla condizione di spirito che si confaceva a una vera sacerdotessa, quale immodestia la mia nel pensare il contrario!
“A quando dunque la cerimonia Kagura-san? Mio padre suole ripetere che per la vostra consacrazione intende impiegare ogni oncia delle sue capacità, a onore della nostra riconoscenza al tempio e a Sachiko-sama”, la domanda di Oharu mi colse di sorpresa, anche perché persa nelle mie riflessioni non avevo seguito il discorso. Presi tempo traendo un piccolo sorso d’acqua dalla coppa, ma così facendo incrociai inavvertitamente lo sguardo di Yato, che rese tutto più difficile.
“Oharu-san, vi prego di ringraziare fin d’ora il vostro gentile padre, sono certa che quando il momento giungerà potremo contare sulla sua arte”, una risposta evasiva per molti versi, ma parve sufficiente ad accontentare la giovane che rispose poi alla domanda di una consorella circa le quantità di pellame immagazzinate nel villaggio.
Nascosi un debole sospiro di sollievo dietro la coppa, ma tanto la nonna quanto Yato se ne accorsero e i loro sguardi mi accompagnarono per il resto del pasto.
Stavo per raggiungere la sala dei venti, quando udii la sua voce alle mie spalle.
“Kagura”, ci sarebbe mai stato un giorno in cui sentirlo pronunciare il mio nome non mi avrebbe dato un brivido? Ne dubitavo.
“Si Yato?”, mi voltai a guardarlo. Era solo e sul braccio portava ripiegato il mantello di pelliccia, mi chiesi se avrebbe accompagnato Oharu al villaggio.
“C’è qualcosa che vorrei mostrarti, puoi seguirmi?”, l’ultima volta che mi aveva chiesto qualcosa di simile era stato perché il demone Sesshoumaru si era palesato alla cascata, ora non sembrava in alcun modo preoccupato o in ansia, ma…
“Non temere, non c’è nulla di pericoloso. Soltanto qualcosa che dovresti vedere”, poteva dunque leggermi con tanta facilità?
Annuii e mi preparai a seguirlo. Mentre allacciavo la sopraveste faticai a tenere a bada la gioia che provavo.
Avevo temuto di perderlo, che per timore di quanto era accaduto due giorni prima Yato non volesse più passare del tempo con me, che non si fidasse più di sé stesso. Avevo accettato la consapevolezza che non saremmo mai stati insieme, ma la sua amicizia… quella, almeno a quella non avrei mai voluto ne potuto rinunciare.
Lasciammo il villaggio lungo uno dei sentieri che costeggiavano il ruscello ad est. Conoscevo quella pista, per quanto fosse una delle meno frequentate: i boschi su quel lato erano fitti e ricchi di predatori, lupi e talvolta persino orsi. Yato procedeva mezzo passo davanti a me, e quando abbandonammo il sentiero per inoltrarci nel bosco si premurò di scostare di volta in volta i rami più bassi e i cespugli che avrebbero potuto ostacolare i miei passi.
Ritrovare la serenità del passeggiare con lui fu una lieta riscoperta. Sapevo solo approssimativamente dove ci trovavamo, ma non avevo alcun timore di perdere la strada: conoscevo abbastanza i dintorni da essere ragionevolmente sicura di ritrovare la strada, e poi Yato procedeva con la sicurezza di chi sapeva esattamente dove stava andando.
La neve al di sotto degli alberi fitti era molto più bassa, rendendo il cammino più agevole di quanto avevo pensato in un primo momento, mi sorprese ad un tratto rendermi conto che il freddo era notevolmente diminuito.
“Ci siamo”, rivolsi al samurai uno sguardo interrogativo cui lui rispose con un cenno. Scostò una fronda a rivelare qualcosa che non mi sarei mai aspettata, non così lontano dalle sorgenti termali.
Una polla termale quasi perfettamente circolare occupava buona parte di una piccola radura che si apriva all’improvviso tra gli alberi fitti: l’acqua cristallina fumava per il vapore e la neve intorno era quasi del tutto sciolta a causa del piacevole calore. Era un luogo splendido.
Yato non disse nulla, limitandosi a restare al mio fianco quando superai gli ultimi cespugli per avvicinarmi alla polla. Allora notai un particolare: non c’erano impronte nella neve bassa vicino all’acqua, pur imbattendosi in quel luogo dalla bellezza unica, il bushi doveva essersi fermato senza avvicinarvisi.
“Yato ma…”, guardai a terra e poi lui, tanto che dovette intuire il corso dei miei pensieri. Sorrise, “Quando l'ho trovato ho pensato che dovessi vederlo”.
Il mio cuore accelerò rincorrendo pensieri che mi ero ripromessa più volte d’ignorare, ma in qualche modo riuscii a non arrossire. E fu un bene, perché dopo un momento compresi meglio ciò che intendeva.
Quello che in un primo momento non avevo visto era la statua. Un idolo volpe di pietra era intagliato nella roccia viva accanto al margine della polla: parzialmente ricoperto di edera secca e neve, se ne stava dimenticato all’apparenza da innumerevoli anni.
“Sapevi della sua esistenza?”, scossi la testa e mi avvicinai, inginocchiandomi accanto alla statua, “No, non avevo mai sentito di un kami in questo bosco. Credo che nessuno al tempio ne sia a conoscenza”. Parlando scostai un po’ della neve dalla statua, quindi insieme la liberammo dall’edera e da tutto ciò che il tempo vi aveva lasciato.
Da una tasca dell’haori, Yato estrasse alcuni bastoncini d’incenso profumato. Li accendemmo ai piedi della volpe e io invocai la benedizione degli spiriti su questo luogo.
“Credi sia per questo che il demone temuto da tua nonna si stia risvegliando?”, mi sorprese sentirlo parlare di questo: nessuno nel villaggio parlava di Sesshoumaru, nemmeno la nonna. Temevano che parlarne apertamente rischiasse di evocarlo.
“E’ possibile che l’aver dimenticato di onorare la protezione di alcuni kami abbia… un certo peso in quello che la nonna teme”. Presi un lungo respiro mentre gli incensi coloravano l’aria con un intenso profumo di ciliegio in fiore.
Inginocchiati insieme di fronte al kami volpe, avvolti dal profumo di ciliegio in pieno inverno… pensare alla minaccia del demone non era mai stato così difficile.
“Perché non me ne hai mai parlato?”, la sua domanda arrivò dopo lunghi istanti di piacevole silenzio, non c’era risentimento ma soltanto sincera curiosità, pensai attentamente prima di rispondere: “Mille anni fa, un demone delle tempeste minacciò di distruggere il villaggio. Il più forte tra i guerrieri di allora riuscì però a sconfiggerlo e a sigillarlo nella montagna, era il padrone di Tessaiga”, i suoi occhi non lasciarono i miei neppure per un istante mentre raccontavo, “Il guerriero morì per le ferite subite, ma il suo sacrificio era nella spada che lo rappresentava, e secondo la tradizione essa avrebbe continuato a sigillare Sesshoumaru, il demone lupo. Il tempio venne costruito a protezione del sigillo e da allora le sacerdotesse custodiscono la spada e vegliano sui segni”.
Non avevo ancora risposto alla sua domanda, ma trovare le giuste parole non fu facile, “Ogni persona qui nasce con la paura del demone, si teme che parlarne lo evochi. La nonna teme che… non manchi molto al suo risveglio”. Tacque guardandomi con estrema attezione, “Anche tu lo temi?”.
“Io non temo l’inverno Yato. Non ho timore del freddo. Ma di Sesshoumaru… temo ciò che so di lui e cosa potrebbe fare. Temo di non essere all’altezza di fare ciò che sarà necessario in quel caso, temo che il mio fallimento condanni le persone a cui tengo. Questa… questa è la mia paura del demone”.
Nei suoi occhi d’ossidiana brillarono tutti i mille riflessi della neve, quasi mi mancò il respiro nel perdermi in una simile infinita bellezza…
Il sorriso che amavo gli illuminò il volto, mentre lo sguardo ammirato con cui mi onorò mi lasciò senza parole per la gratitudine, “In te non c’è soltanto la bellezza, ma anche una forza straordinaria, vorrei ti concedessi di vederle Kagura”.
Bella. Davvero mi trovava bella? Yato pensava fossi bella… era incredibile e… meraviglioso.
Per la prima volta in vita mia pensai a me stessa come a una persona forte. Non ero mai davvero riuscita a crederci prima, nonostante la nonna e molti altri avessero fiducia nelle mie capacità, io avevo sempre dubitato…
Yato credeva in me, forse potevo farlo anche io.
Restammo alla polla per il resto del pomeriggio, fin quando le ombre della sera si allungarono sulle acque. Allora tornammo insieme al villaggio, fianco a fianco.
« Ultima modifica: 2013-07-14 19:35:38 da Alessia Bartolacelli »
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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #7 il: 2013-07-15 18:08:24 »
Scena 8 - Un dono e una confessione d'amore interrotta


“Così sei tu ad occuparti dei manoscritti del tempio?”, annuii senza perdere il sorriso. Il pomeriggio era particolarmente piacevole nonostante il freddo intenso, ma forse era soltanto perché Yato era venuto a cercarmi dopo i riti del mezzodì.
Passeggiavamo da quasi un’ora nei giardini innevati quando il discorso toccò l’importanza della conoscenza dei testi per l’educazione di ognuno, non mi sorprese affatto scoprirlo un fine conoscitore delle dottrine e un estimatore della poesia: era ancora impresso nella mia mente il pomeriggio in cui avevo suonato per lui mentre terminava di comporre un haiku, avevamo suonato insieme e il mio cuore aveva gioito di quel momento come mai prima di allora.
“Non soltanto, tutte le sacerdotesse hanno questo onore, ma tra i compiti che mi sono affidati è uno di quelli che preferisco. Ho sempre amato molto leggere, sin da bambina”, sorrise del mio genuino entusiasmo, “Tua nonna me ne ha parlato”. Lo guardai, ora si sorpresa, non pensavo che la nonna parlasse di simili argomenti con lui, “La nonna ha… sempre incoraggiato questa mia passione, è stata lei a insegnarmi. Ha fatto lo stesso anche per molti bambini del villaggio”, come Oharu per esempio, era la prima volta quel giorno che pensavo alla giovane, ma non permisi a me stessa di rattristarmi.
Una folata di vento più fredda delle altre mi fece stringere un po’ di più nel mantello, Yato probabilmente se ne rese conto e rivolse un’occhiata al cielo carico di neve. Stavo per negare, declinare quello che pensavo sarebbe stato il suggerimento a rientrare, ma lui mi sorprese ponendo la questione in modo diverso, “Kagura vorrei mostrarti alcuni tra i testi che mi sono più cari, non me ne separo mai”. Lo osservai per alcuni istanti, onorata della sua considerazione, “Ne sarei onorata Yato”. Sorrise e ci incamminammo di nuovo verso il tempio.
La sua stanza era immutata rispetto a come l’avevo vista qualche giorno prima: l’armatura perfettamente lucidata in un angolo pareva un guerriero senza volto assorto in misteriose riflessioni, il futon giaceva ordinatamente ripiegato poco distante, mentre sul tavolino basso stava il necessario per preparare e servire il thè.
Yato mi fece accomodare accanto allo scrittoio di legno chiaro, su di esso una pergamena intonsa attendeva di farsi tramite di nuovi versi.
Da una cassapanca il bushi estrasse con attenzione alcune custodie di pelle finemente decorate, quindi sedette accanto a me e le aprì, svelando ai miei occhi alcune delle pagine più belle che avessi mai visto: la finezza dei tratti e la precisione degli inchiostri rendevano ognuno di quei manoscritti un singolo capolavoro.
Me li mostrò uno alla volta, senza alcuna fretta, talvolta leggendomene alcuni passi, o lasciando lo facessi io. Fuori la neve aveva preso a cadere copiosa dal cielo plumbeo, ma non vi rivolsi il minimo pensiero, non lì, non in quel momento.
Tra i testi che mi mostrò vi erano anche alcuni sutra, non quello dell’amore però. I miei pensieri si soffermarono forse più del dovuto su quel particolare perché Yato mi rivolse uno sguardo interrogativo dopo un silenzio forse troppo prolungato.
“Pensavo che… mi sorprendete una volta di più”, l’espressione interrogativa si accentuò e non potei fare a meno di sorridere, l’atmosfera tutto sommato era davvero distesa, “Non per questi…”, accennai ai manoscritti sul tavolo, “Ma per quello”.
Seguì il mio sguardo fino al tessen infilato nella sua cintura, “Ricordate la prima volta che abbiamo parlato? Stavate lucidando le vostre armi nella sala dei venti e in quell’occasione vidi il vostro tessen e il sutra tracciato su di esso”. Capì e lo sguardo interrogativo lasciò nuovamente il posto al sorriso, “Ricordo bene”, estrasse l’arma e la aprì porgendomela con cautela. Sorpresa di nuovo - che un bushi affidasse ad altri le proprie armi, anche solo per un momento, era qualcosa che non avrei ritenuto possibile - porsi le mani prendendo il ventaglio dalle sue con la massima cura.
“Fa attenzione”, la sua preoccupazione era per me: non temeva che danneggiassi il tessen, ma che mi ferissi con esso. Sorrisi e lo ringraziai con un gesto, “Dimenticate quale sia il mio compito principale qui al tempio? Conosco abbastanza le armi da rispettarle Yato”.
Annuì ma i suoi occhi rinnovarono la raccomandazione.
Mi presi il tempo per ammirare la perfezione dell’arma, la grazia dei kanji dipinti e il filo perfetto delle lame, finché non mi trovai a recitare il sutra a bassa voce: “Lasceremo che il nostro amore pervada l’universo intero, in tutte le direzioni. Il nostro amore non conoscerà ostacoli. Il nostro cuore sarà assolutamente libero da rancori e ostilità. Questa…”, “Questa è la più nobile maniera di vivere”, concluse lui il verso, lo sguardo fisso nel mio, la mia consapevolezza che minacciava di perdersi nell’abisso di ossidiana dei suoi occhi.
“Kagura vorrei che accettassi una cosa da parte mia”, liberò il miei occhi il tempo sufficiente a estrarre dal baule un’altra custodia, quindi me la porse con un sorriso.
“Yato io davvero non posso accettare…”, scosse la testa, “Non è che un piccolo dono, è… qualcosa che vorrei avessi tu”.
Il cuore accelerò i suoi battiti mentre posavo il tessen sullo scrittoio con la massima attenzione, per prendere la custodia dalle sue mani: aprendola vi trovai una pergamena perfetta quanto le altre che mi aveva mostrato, al centro in kanji perfetti stava un singolo haiku.
Freddo tagliente
tra le solide rocce.
Note leggere.

Alzai commossa lo sguardo dalla poesia ai suoi occhi, “Questo è…”, annuì, “L’haiku che composi quel giorno nel giardino di pietra. La tua melodia mi ha concesso di terminarlo e io vorrei fosse tuo”.
Abbassai lo sguardo, non sarei riuscita a contenere le lacrime se avessi continuato a guardarlo in viso, “Grazie Yato, questo… non ho parole per dirvi quanto lo consideri prezioso”.
Rilessi i versi altre volte prima di ripiegare la pergamena come fosse un tesoro, e lo era davvero… faticai a contenere la commozione, il cuore che si ostinava a disobbedirmi e a non rallentare.
Yato continuava a osservarmi, lo stesso quieto sorriso dipinto sul viso, finché riprese il tessen dal tavolo, chiudendolo con gesti lenti ed estremamente rispettosi. Lo guardai incantata, “Deve essere molto importante per voi”, temetti per un istante di aver oltrepassato il limite accennando a qualcosa che comunque non mi riguardava. Il bushi mi sorrise di nuovo, “Si. Sono legato a quest’arma più che alle altre, è una storia lontana però… ugualmente vorresti sentirla?”, annuii.
Con un singolo gesto, talmente veloce che nemmeno lo vidi, aprì il tessen: le lame scattarono fendendo l’aria davanti a noi con un movimento fluido quanto l’acqua stessa.
“Quando conclusi l’addestramento, il mio sensei mi diede tre cose: il nome, il rispetto, e quest’arma. La custodiva come un tesoro, perché gli era più cara anche della katana. E’ un’arma difficile, diceva, padroneggiare il tessen significa comprendere l’essenza degli elementi e il loro intrecciarsi”, tacque alcuni istanti, lo sguardo su quei ricordi attentamente custoditi, “Aveva avuto altri allievi naturalmente, ma… ciò che più aveva significato per lui volle darlo a me”.
Era evidente quanto grandi fossero il rispetto e l’affetto che l’avevano legato al sensei, iniziai a temere una delle ragioni che portavano Yato a indossare sempre il bianco.
La tristezza era scesa su di lui come un mantello, il mio cuore ne soffriva tanto che non riuscii a impedirmi di farlo. Allungai lentamente una mano e, questa volta si, gliela posai sul braccio.
I suoi occhi si alzarono nei miei, uno sguardo talmente intenso che quasi mi mancò il respiro; la mia voce tremò, scossa dalla commozione che non riuscivo più a contenere, “Lui aveva una tale fiducia in voi… e nonostante questo, ancora dubitate?”.
Trattenne il respiro per un istante, negli occhi un vortice che non mi riuscì d’interpretare. Non sapevo cosa avrebbe fatto, ma non aveva importanza perché anche io, come il suo sensei, avevo assoluta fiducia in lui.
“Kagura io…”.
Non finì la frase. E io non finii nemmeno il respiro. L’aria fu scossa da un boato che riecheggiò nella terra stessa. Le pareti tremarono mentre alcune pergamene cadevano a terra, insieme alle tazze per il thè e a molto di ciò che c’era nella stanza.
Era la prima volta che lo sentivo tanto chiaramente… e così vicino. Sesshoumaru gridava il suo oltraggio e la montagna stessa ne era scossa fin nelle fondamenta.
Yato si alzò immediatamente tirandomi in piedi con lui, qualunque cosa stesse per confidarmi era oramai perso nel turbine d’ira del demone, mi concessi di rimpiangerlo il tempo che impiegammo a raggiungere di corsa il cortile del tempio, poi mi costrinsi ad agire per aiutare le persone che erano accorse terrorizzate, a pregare per scongiurare il peggio.
Ero l’allieva della prima sacerdotessa e questo era il mio compito. Ma se non provai il cieco terrore che vidi negli occhi dei miei compaesani, fu soltanto grazie alla presenza di Yato, mai troppo distante.
Sempre e comunque vicino al mio cuore.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #8 il: 2013-07-16 18:19:21 »
Scena 9 - Una confessione d’amore oltre la disperazione

“Preferirei accompagnarti, se me lo permetti”, la nonna mi aveva chiesto di controllare lo stato delle statue dei kami intorno al villaggio, preoccupata per la tenuta del sigillo. Non l’aveva detto chiaramente, ma potevo leggere la preoccupazione nei suoi occhi.
Yato si era offerto di accompagnarmi e, come in occasione dell’esorcismo alla cascata, non indossava il mantello di pelliccia e le spade erano libere. Libere di essere sfoderate in caso di pericolo.
Temeva fossi in pericolo. Poi ricordai, lo eravamo tutti, e il suo gesto era dovuto alla sua gentilezza e alla sua cavalleria, non era il momento di perdersi in evanescenti speranze d’amore, lo sapevo ma… quello che stava per dire il giorno prima… continuavo e sentire l’eco della sua voce nel mio cuore, continuamente.
“Grazie Yato…”, mi sorrise e insieme lasciammo il tempio.
Per ultimo avevamo lasciato il kami volpe  nascosto nel bosco a est. Il pomeriggio iniziava oramai a declinare e la neve scendeva lentamente dal cielo, grazie agli Dei la giornata era passata senza che Sesshoumaru si facesse nuovamente sentire.
La piccola polla termale pareva ancor più bella della prima volta.
Mi sentii quasi in colpa: non solo era come se la paura che incombeva su tutto il villaggio a malapena mi sfiorasse, ma anche in un momento simile non potevo fare a meno di essere felice di trovarmi ancora lì. Insieme a Yato.
Sciocca e infantile, questo probabilmente avrebbe pensato. Scossi piano la testa per scacciare questi pensieri, così vidi che lui mi osservava: non con l’attenzione di chi cercava di dirimere un interrogativo, semplicemente i suoi occhi mi seguivano. E davanti a essi il mio cuore accelerò.
Sedemmo a pregare insieme gli Dei, rinnovando l’incenso alla base della statua. Di nuovo il dolce profumo di ciliegio si unì ai vapori dell’acqua termale, avvolgendoci entrambi.
“In molti paragonano la vita di un bushi al fiore di ciliegio”, la sua voce era bassa, avvolgente come le acque del più profondo lago di montagna, non riuscii a evitare un brivido che lui fortunatamente parve non notare.
Certamente anche io avevo sentito di quel paragone, estremamente poetico per quanto impietosamente terribile nella profondità del suo significato.
“Il ciliegio tra i fiori, il bushi tra gli uomini”, mormorai in risposta. Yato annuì volgendo lo sguardo dalla statua ai miei occhi: lessi in lui uno sconforto che mi fece male, la medesima malinconica solitudine che avrei fatto di tutto per cancellare.
“Una vita perfetta e caduca quanto un fiore”, sospirò, “Ma se così è… cosa ci rende diversi da una semplice arma? Forse non vi è altro destino per un guerriero che morire come un’arma?”.
“Io non lo credo”, i suoi occhi tornarono immediatamente nei miei, per poco infatti la malinconia li aveva distolti, “Un’arma non può scegliere la propria battaglia, un’arma non prova niente. La vita di un bushi… la vita di un uomo è assai più di questo”.
I suoi occhi non mi lasciarono nemmeno quando tacqui per radunare i pensieri, “Pensare a un uomo come un’arma svuota di significato la sua vita, il significato sta nelle scelte che si compiono e non lo si può ignorare. Almeno questo è… ciò che io credo”. Sorrise, un riflesso di riconoscenza nella sua espressione.
“A volte ho pensato a me stesso in questi termini. Ciò che i miei avversari sostenevano, che non fossi degno di rispetto, che non ci fosse merito alcuno nelle mie vittorie, alcuno sforzo nelle mie abilità, alcun onore nelle mie battaglie talvolta mi ha… fatto dubitare”.
Il dolore che un simile dubbio gli scavava nell’animo era un solco che lo tormentava, con tutto il cuore pregai gli Dei di riuscire a fargli vedere la verità.
“E’ forse colpa dell’aquila volare quando il coniglio non può farlo? O dell’orso, che tanta più forza ha del cervo?”, tacqui alcuni istanti, ma non avrei potuto lasciare i suoi occhi per niente al mondo, “Uomo, guerriero, mezzo oni, samurai… tutto questo fa parte di te, ma… non è te. Tu sei Yato e niente altro ha davvero importanza”. Di certo non ne aveva per me.
Qualcosa della mia espressione dovette tradire i miei pensieri, perché lui cambiò davanti a me, senza lasciare il mio sguardo, “Sei sicura di questo?”.
Che avesse gli occhi neri o di ghiaccio, che la pelle fosse bianca o solcata dai misteriosi tratti blu, non aveva alcuna importanza per me: Yato era un uomo degno di rispetto e onore, e di più… era l’uomo che amavo con tutto il cuore e questo non sarebbe mai cambiato.
“Si”, non ebbi alcuna esitazione. A rimarcare il peso della sua domanda, il bushi immerse una mano nella polla termale: il vapore fischiò per un attimo prima che l’intera superficie venisse ricoperta dal ghiaccio, “Ne sei davvero sicura Kagura?”, “Si”. Di nuovo nessuna esitazione, in quel momento che leggesse il segreto del mio cuore nei miei occhi non mi importava.
Ritrasse la mano e i tratti legati alla sua ascendenza sovrannaturale lentamente svanirono insieme al ghiaccio nella polla.
“Kagura io… vorrei davvero… ma come posso…”, lasciò cadere la frase e abbassò lo sguardo sulle sue mani. Ma a cadere infinitamente più in basso era il mio spirito, lo stavo perdendo a ciò da cui avrei voluto salvarlo per sempre, alla tristezza soverchiante che più di ogni altra cosa volevo cancellare.
“No… Yato non lasciate che a vincervi sia un ingiusto timore”, sentivo il cuore martellare incessantemente contro il petto, tanto che temevo finisse per scoppiare.
Troppo amore per un solo cuore, troppo per un solo spirito.
Pregai gli Dei mi perdonassero, ma il mio amore non sarebbe mai stato loro esclusiva. Era suo, completamente.
Senza quasi accorgermene, le mani raggiunsero la spilla a chiusura della sopraveste. Quando mi scivolò dalle spalle non avvertii alcun disagio, il suo sguardo tornò ad affondare nel mio e si accese.
Soltanto di quello avevo bisogno, il calore di una veste era nulla a confronto.
La mia scelta era fatta. Lì, in quel luogo sacro, nel silenzio del mio spirito avevo consacrato me stessa a Yato.
Trattenne il respiro quando feci scendere l’orlo del kimono a scoprire la spalla, ma dopo un istante oltre il desiderio i suoi occhi si velarono per il senso di colpa: esitante sollevò la mano, come volesse sfiorare il segno lasciato dalla bruciatura gelida, ma fermò assai prima quella carezza carica di rimpianto.
“Mi dispiace così tanto…”, no! Non mi sarei arresa, non l’avrei lasciato andare, non questa volta. Se la mia vita aveva un significato, stava tutto in questa scelta.
Gli presi la mano e la tenni stretta tra le mie, sentivo le lacrime bruciare ai lati degli occhi, ma rifiutai di arrendermi ad esse, “Ti prego… ti scongiuro Yato non darti la colpa anche di questo..!”. Abbandonai qualsiasi forma di rispettoso distacco, improvvisamente non avevano più senso.
Non avevo mai pregato nessuno con tanta intensità, non avevo mai provato un sentimento così forte che sembrava non potessi in alcun modo contenerlo, non pensavo sarei mai stata capace di tanto.
Ma non avevo mai neppure desiderato con altrettanta forza. Non avevo mai nemmeno sospettato cosa fosse l’amore, prima.
Il suo sguardo, la sua espressione… cambiarono. Come se il fuoco avesse ripreso a bruciare con rinnovata intensità, come se l’ombra del dubbio fosse improvvisamente scomparsa, come se anche lui provasse ciò che mi sconvolgeva.
Un momento più tardi mi trovai stretta nel suo abbraccio. Travolta da sensazioni troppo più forti di qualunque altra cosa avessi mai provato, potei soltanto stringermi a lui, unico bastione a difendermi dall’uragano.
"Kagura, grazie a te ho compreso che sono un uomo e che non devo vergognarmi del mio retaggio demoniaco. C'è tanta saggezza in te, tanta meraviglia che non vedi”, sospirò stringendo appena l'abbraccio, “Hai saputo vedere dentro di me ciò che io stesso non potevo vedere, sei speciale". Non sarei riuscita a dire nulla, sollevai appena lo sguardo e alcune lacrime vinsero la mia resistenza. Dolcemente, Yato le asciugò con la punta delle dita, una carezza tanto lieve quanto saldo era il suo abbraccio; ad entrambi mi abbandonai, lasciandomi affondare nei suoi occhi.
Un demone millenario incombeva sul villaggio, eppure… in quell’istante provai la felicità più assoluta e il più lancinante desiderio di eternità.
« Ultima modifica: 2013-07-16 18:21:04 da Alessia Bartolacelli »
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Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #9 il: 2013-07-17 19:55:39 »
Scena 10 - Una promessa fatta


Ci erano voluti giorni interi per porre rimedio ai danni maggiori procurati dal ruggito del demone. La gente del villaggio era terrorizzata e in molti non se l’erano sentita di dormire nelle proprie case, preferendo restare al tempio. Trovare posto per tutti non era stato semplice.
La nonna era instancabile, pregava incessantemente per rinsaldare il sigillo e contemporaneamente si occupava di aiutare tutti: la ammirai ancora di più per la forza immensa che stava dimostrando. Io cercavo di fare altrettanto, al massimo delle mie possibilità, soprattutto tentavo di infondere il coraggio in quei cuori terrorizzati.
Tutti erano annichiliti dalla minaccia oramai incombente, la nonna me lo confermò prendendomi da parte un momento, dopo le preghiere della sera: Sesshoumaru stava per svegliarsi, il sigillo quasi infranto, se non fossimo riuscite a fare qualcosa per impedirlo il villaggio sarebbe stato condannato.
In tutto questo, Yato restò sempre a disposizione, aiutando in tutti i modi possibili, dandomi tutto il coraggio che serviva ad affrontare l’emergenza: non potevamo rischiare il panico, se davvero il demone si fosse risvegliato avremmo dovuto agire in fretta e lucidamente, salvare le persone era la priorità.
Purtroppo vi erano molti anziani, molti bambini, molte persone che non sarebbero state in grado di affrontare lunghe marce in pieno inverno. Quella stessa sera, mentre tranquillizzavo un gruppo di bambini spaventati dagli incubi mi ritrovai a pensare a come poter trasferire altrove tutte quelle persone, e dove poi? In un’epoca di guerre continue come quella che stavamo vivendo, erano ben pochi i luoghi sicuri per la popolazione inerme di un piccolo villaggio.
E poi alcuni degli anziani non avrebbero potuto camminare, se non ci fosse stato Yato ad aiutare Uzumaki-san a raggiungere il tempio, l’anziano non avrebbe potuto farcela, sua nipote era troppo piccola per sorreggerlo…
E i bambini piccoli…
Sentii distintamente la morsa dello sconforto stringersi intorno alla mia gola. Faticavo a vedere una soluzione, ma non potevo perdere la speranza, anzi: dovevo averne abbastanza per tutti.
“Stai bene?”, la sua voce profonda disperse anche l’ultima ombra di timore, lo guardai immensamente riconoscente per… ogni cosa. Per essermi accanto, per il suo sostegno, per la sua fiducia. “Si, non preoccuparti. E’ stato solo un momento”, mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, i bambini oramai addormentati non avevano più bisogno di me.
“Dovresti riposare Kagura”, sorrisi e strinsi con più forza la sua mano, grata per la sua preoccupazione, “Lo farò ma… ora ci sono così tante cose da fare e a cui pensare che…”. Non riuscii a concludere il discorso che una delle sacerdotesse venne a chiamarmi di corsa: la nonna richiedeva immediatamente la mia presenza.
Guardai Yato per un lungo istante prima di seguirla, sentendo la sua mancanza dal momento esatto in cui gli lasciai la mano.
“Il peggio sta per succedere nipote mia. Il sigillo è quasi del tutto infranto, sembra che i santuari stiano cedendo uno dopo l’altro. Vorrei che tornassi a verificare lo stato di quelli a est del villaggio per prima cosa domani mattina”, annuii senza interromperla, “Naturalmente mi sentirei molto meglio sapendo che non andrai sola, sono ragionevolmente sicura che Minamoto-san vorrà accompagnarti”. Non seppi interpretare la sua espressione, sembrava vi fosse un dubbio nella sua mente e stesse cercando di decidere se darvi voce o meno.
Sembrava inamovibile come un albero secolare, ma la stanchezza traspariva nello sguardo e nei gesti, “Oba-sama dovresti riposare un poco…”. Mi accarezzò il viso sorridendo, “Non è il momento Kagura, ma non preoccuparti per me, sto bene. Piuttosto nipote mia, tu… ultimamente hai parlato molto con il bushi non è vero?”. Il mutamento nel discorso mi sorprese tanto che per poco non arrossii, “Io… si, è vero Oba-sama”, parve riflettere attentamente, “E Kagura lui non…”, mi guardò negli occhi a lungo, come se cercasse di sondare i miei pensieri o il mio spirito.
Scosse la testa, “Non fa niente. Non voglio che… va a riposare nipote mia. Ricorda quello che ti ho chiesto di fare”.
Annuii domandandomi cosa volesse chiedermi di Yato, non credevo che lei o chiunque altro sapessero la verità sulle sue origini, ma qualcosa mi diceva che riguardava altro, forse… forse Sesshoumaru.
Prima di ritirarmi raggiunsi la sala del venti, l’unico luogo del tempio a non essere ingombro di persone. Tessaiga mi attendeva, come ogni sera la presi e la sguainai per pulirne la lama e controllare il filo. Feci tutto quello che facevo di solito, intessendo ai consueti gesti preghiere agli Dei finché, al momento di rinfoderarla, esitai.
Se soltanto fossi degna di brandirti, pensai, se soltanto sapessi come usarti per combattere…
Ma non lo sapevo, ero la custode della spada, non la sua padrona.
Yato forse avrebbe potuto. Ma non glielo avrei mai chiesto. Mai.
Yato. Era questo che la nonna alla fine aveva deciso di non chiedermi. Mi aveva risparmiato una pena infinita e non le sarei mai stata grata abbastanza.
Rinfoderai Tessaiga e la riposi al suo posto sull’altare, pregando ancora gli Dei per un segno, qualcosa che mi permettesse di aiutare a salvare il villaggio.
Non era ancora l’alba quando lasciammo il tempio. Quella notte avevo dormito poco, di un sonno flagellato dagli incubi: distruzione, dolore, morte. E io che non riuscivo in alcun modo a evitare nulla di tutto questo alla mia gente, nemmeno a colui che amavo.
Procedevamo fianco a fianco, abbastanza vicini che, talvolta, le nostre mani si sfioravano. Il freddo si era fatto innaturalmente intenso, gli alberi e le case erano incrostati di ghiaccio e gli animali nelle stalle erano silenziosi come fantasmi. Faceva talmente freddo che la neve cadeva in fastidiosi frammenti completamente ghiacciati, che turbinavano nel vapore del mio respiro.
Non dicemmo nulla durante il tragitto, lasciando che a parlare per entrambi fosse l’indugiare nella dolcezza delle occasionali carezze delle nostre mani.
Non avevamo più parlato da soli da quando eravamo stati alla polla l’ultima volta due giorni prima, non ce n’era stato il tempo. I nostri discorsi da allora erano fatti di sguardi brevi e intensi, mentre il ricordo del suo abbraccio e delle sue parole mi scaldava il cuore in un modo che alcun gelo maligno avrebbe potuto estinguere.
“Kagura guarda”, alzai gli occhi dalle radici congelate di un albero fino alla polla termale. Nell’aria i vapori ai quali ero abituata avevano lasciato il posto al freddo impietoso che avvolgeva tutta la montagna: la polla era una liscia superficie di ghiaccio, mentre il kami volpe giaceva schiantato in due pezzi sul bordo.
Portai entrambe le mani al viso, colta di sorpresa dalla sofferenza provocata da una simile vista. “No…”, impiegai più di un momento a riprendere il controllo di me stessa, mi inginocchiai accanto alla statua spezzata e Yato fece lo stesso. Vicini come molte altre volte da che era entrato nella mia vita, ma questa… sarebbe potuta essere l’ultima volta. La minaccia avrebbe potuto distruggere ogni cosa, a partire dalla felicità che avremmo forse potuto conoscere, se il futuro non fosse stato breve ed oscuro davanti a noi.
“Yato, tu lo senti?”, in qualche modo la mia voce non tremò e il mio sguardo si fissò nel suo. Lui prese un profondo respiro lasciando affiorare i caratteri della sua ascendenza paterna: gli occhi del colore del ghiaccio vagarono da me alla montagna oltre gli alberi, e annuì, “E’ potente. Più di qualsiasi altra cosa abbia mai incontrato”.
Silenziosamente lo ringraziai per il rispetto che mi mostrava nel dirmi la verità, per quanto difficile potesse essere. Tacque per qualche momento, i tratti sovrannaturali che recedevano lentamente.
“Hai mai avuto paura?”, nei suoi occhi colsi tanto il riflesso del timore quanto la vergogna che provava per esso, benché non vi fosse nulla di sbagliato nel provarlo. Impiegai un istante a raccogliere i pensieri, “Da sempre la gente del villaggio convive con la paura del demone. Io non faccio eccezione. Tuttavia… è come se essa avesse su di me meno potere di un tempo. Da quando ti ho conosciuto Yato… è come se fossi più forte contro di essa”, da quando avevo incrociato i suoi occhi e il mistero dell’amore si era impadronito della mia anima.
“Io penso che la paura sia un’alleata importante per un guerriero, per ognuno di noi. Essa ci dà la misura di ciò che non vogliamo perdere, di ciò che vogliamo difendere e di ciò che non siamo disposti a sacrificare”, non volevo perdere il villaggio, desideravo difendere i miei cari e non sarei mai stata disposta a sacrificare il mio amore.
Se solo avessi potuto…
Abbassai lo sguardo sulle mie mani, strette a pugno sopra le ginocchia, le nocche sbiancate per tutta la forza della mia disperazione. Gli occhi bruciavano di lacrime gelide che non sapevo quanto a lungo sarei riuscita a trattenere.
“Io non vorrei essere soltanto la custode della katana…”, la voce tremò di rabbia, dolore e frustrazione trattenuti a stento.
Se soltanto avessi potuto combattere..!
“No Kagura”, oltre le lacrime vidi le sue mani coprire le mie, oltre il freddo sentii il calore della sua stretta più intenso che mai. Sollevai lo sguardo sul suo viso, l’espressione fiera e gli occhi ardenti nell’elegante perfezione dei suoi tratti mi tolsero il respiro.
“Non lascerò che un simile peso ti opprima. Tu mi hai dato la forza di una consapevolezza che non avrei mai trovato da solo. Non sono mai stato così forte prima, ed è soltanto grazie a te”, strinse più  forte le mie mani, “Per te. Io affronterò la minaccia del demone e lo sconfiggerò. Con te sento di poter fare qualsiasi cosa”.
“Yato non…”, non avrei mai voluto che rischiasse tanto. Lui sorrise accarezzandomi il viso, “Ho la tua fiducia?”, annuii nella sua carezza, potevo sentire le lacrime scivolare lungo le guance, “Si… completamente”.
Mi abbracciò stretta finché le mie lacrime non si esaurirono. Allora alzai il viso a cercare i suoi occhi, Dei… come potevo essere tanto felice e tanto terrorizzata al tempo stesso?
“Stanerò il demone, lo sconfiggerò. Tu dovrai fare in modo che la gente del villaggio stia lontana dallo scontro, anche tu devi promettermi che lo farai perché sarà pericoloso, io stesso potrei esserlo e non voglio rischiare ti accada nulla”, non lasciò mai il mio sguardo e prima di continuare attese un cenno di assenso, “E quando tutto sarà finito sarò qui, ad aspettarti. Verrai..?”.
Il mio cuore non sarebbe mai stato grande abbastanza per un simile amore, nemmeno se avesse occupato tutto il mio corpo.
Annuii cingendogli il collo con le braccia, “Sempre..!”. Lo baciai e ogni altra cosa perse significato; il mondo iniziava e finiva in quel momento, circoscritto dal suo abbraccio, avvolto nel mio e suo respiro.
Un momento di perfezione che sarebbe stato eterno nel mio e nostro cuore.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #10 il: 2013-07-18 22:47:50 »
Scena 11 - Lo scontro decisivo

“Ne sei certa nipote?”, “Si Oba-sama. Completamente e assolutamente! Ora dobbiamo sbrigarci! Yato ha percepito la presenza del demone a nord, sul crinale sopra il villaggio. Dobbiamo spostarci tutti verso sud, il tempio va abbandonato, almeno per adesso”. In quanto centro del sigillo, il tempio era l’edificio più a nord del villaggio, tradizionalmente nulla veniva costruito oltre di esso in quella direzione.
Lessi il dubbio nei suoi occhi e la stessa frustrazione che avevo provato io stessa fino a poche ore prima, “Abbandonare il tempio…”. Le presi le mani guardandola dritto negli occhi, “Yato lo sconfiggerà, il villaggio sarà salvo. Io ne sono certa oltre ragione Oba-sama! Avete sempre detto di aver visto un segno nei miei occhi, ebbene guardate ora! Cosa vedete nei miei occhi adesso?”.
Fece ciò che le avevo chiesto, e fissò lo sguardo nel mio. Ebbi l’impressione che percorresse ogni riflesso delle iridi prima di rispondere, “Amore… sbaglio?”, non abbassai gli occhi né provai alcun imbarazzo, non avrei più temuto la verità, “No, non sbagliate. Il mio cuore gli appartiene Oba-sama”.
Sorrise, e in quell’espressione lessi tutto lo sconfinato affetto che provava nei miei confronti, “Lo fa per te?”. Ripensai a quel momento così importante, così meraviglioso e terribile, era accaduto soltanto un paio d’ore prima, ma sembrava già fuori dal tempo. Annuii, “Per me, e per il villaggio. Io… sebbene non gli abbia chiesto di…”, la voce minacciò di mancarmi più volte. La nonna mi strinse le mani nelle sue, “Allora, quando tutto sarà finito, credo proprio che dovrei parlare con questo eroico giovane bushi. Non basta sconfiggere un demone per ambire alla mano di mia nipote”.
Sorrise e in qualche modo riuscì a far sorridere anche me. Desideravo con tutto il cuore e lo spirito che le sue parole potessero avverarsi. Scacciai le lacrime e ritrovai risolutezza, non era il momento di pensare a cose simili, “Grazie Oba-sama, ora facciamo la nostra parte”.
Di corsa organizzammo lo spostamento di tutti gli abitanti verso sud, anziani non in grado di muoversi e i bambini piccoli sui carri, tutti gli altri pronti a muoversi in fretta se fosse stato necessario.
Incrocia più volte Oharu, mentre entrambe facevamo il possibile per aiutare tutti a raggiungere la zona dell’onsen di Higurashi-san, l’edificio più a sud dell’intero villaggio. Quando le misi in braccio un bambino che era rimasto separato dalla madre, la giovane mi fermò per un istante: potevo leggere nei suoi occhi la preoccupazione e il dolore… Avrebbe meritato la più grande felicità, lo sapevo, ma… per garantirgliela avrei dovuto rinunciare al cuore, che gli Dei potessero perdonarmi era qualcosa che non sarei mai riuscita a fare.
“Lui è…”, rivolse uno sguardo angosciato alla montagna e io annuii, incapace di trovare le parole per un lungo attimo. “Vincerà, non devi avere timore per questo”, alle mie parole i suoi occhi si velarono per un istante di lacrime, Oharu mi parve molto più giovane di quanto il solo anno che ci separava avrebbe lasciato intendere.
Stavo tornando al tempio per recuperare l’ultima cosa quando udii il ruggito del demone infuriato.
Corsi più in fretta, incurante del vento che spazzava il villaggio sollevando vere onde di neve ghiacciata; rischiai di cadere almeno un paio di volte, la terra tremava come se stesse per frantumarsi e mantenere l’equilibrio si faceva sempre più difficile.
Ma non potevo lasciare Tessaiga. Era una mia responsabilità.
Raggiunsi la sala dei venti, presi la spada e prima di correre di nuovo fuori controllai di avere con me il sutra del cuore e la pergamena con l’haiku che Yato mi aveva donato, come la katana erano oggetti dai quali non avrei potuto separarmi.
Appena fuori, oltre la soglia del sentiero di ciottoli caddi. La terra sobbalzò improvvisamente, il vento e l’ululato del demone fendettero l’aria, così vicini che il mio cuore ebbe un sobbalzo. Mi voltai e lo vidi, immenso al di là del tempio, sul crinale scosceso della montagna: Sesshoumaru, il demone lupo delle tempeste. Enorme, il pelo cangiante dal bianco al bluastro, occhi feroci accesi dalla più intensa fiamma di odio che promettevano soltanto una cosa, morte.
Mi rialzai e obbligai le mie gambe a correre dalla parte opposta: non gli sarei stata di alcun aiuto, e poi gli avevo promesso che avrei allontanato gli abitanti del villaggio e che l’avrei fatto io stessa.
“Sacri Dei vi scongiuro proteggete il mio amore..!”, il vento si portò via la mia supplica, mentre lacrime ghiacciate mi rigavano le guance frustate dalle raffiche.
“Guardate! Là!”
Non avevo bisogno di alzare lo sguardo, i miei occhi non avevano mai lasciato il terribile spettacolo dell’oni lupo che scendeva lungo il crinale, un lento e inesorabile passo dopo l’altro, verso di noi.
Ero stata la prima a vederlo, ma la voce era venuta meno molto prima.
L’unico a ergersi tra noi e Sesshoumaru era Yato.
La furia della tempesta sembrava non sfiorarlo nemmeno, se ne stava immobili e impassibile, la katana sguainata lungo il fianco, in posizione di attesa. Anche da quella distanza potevo vedere i segni blu sulle sue braccia. Il lupo mostruoso gli ruggì contro tutta la sua ira, forse sperando di intimidirlo, ma si illudeva.
Yato avrebbe vinto.
Prima del balzo di Sesshoumaru, l’istante esatto che precedette l’inizio del combattimento vero e proprio, ebbi l’assoluta certezza che il mio amore avrebbe vinto e che il suo avversario non aveva alcuna possibilità. Non avevo nessuna paura. Nessun timore. Nessun dubbio.
I maestri di spada sostengono che prima dell’inizio di un duello, i contendenti si misurino tra loro attraverso le loro aure, un scontro di volontà che presagiva inevitabilmente il risultato finale; talvolta accadeva persino che tale battaglia di sguardi ponesse fine al duello ancor prima di sguainare le armi.
Sesshoumaru sarebbe stato saggio a ritirarsi. Ma non lo fece e questo fu la sua rovina.
Il lupo balzò verso Yato, dietro di me le grida di terrore della gente esplosero. Mi resi conto di essere avanzata di parecchi passi quando la nonna mi prese per un braccio tirandomi nuovamente indietro.
Non staccai però gli occhi dallo scontro che avevo di fronte. Veloce come il vento, il lupo fendette terra e rocce lì dove un attimo prima era il bushi, immobile. Ma lui non era più là. Più veloce di qualsiasi vento di tempesta, Yato aveva spiccato un balzo prodigioso verso l’alto: era sopra il demone.
Mi parve quasi di vedere il brillio dei suoi occhi di ghiaccio, ma forse fu solo un’impressione. Vidi bene invece gli occhi di bragia del demone lupo spalancarsi per il dolore quando la katana di Yato gli affondò tra le scapole, giù fino all’elsa.
Sesshoumaru urlò il proprio dolore e la sua incredulità, e il suo ruggito spaccò il ghiaccio sul crinale della montagna, che franò a valle evitando il villaggio. Ma non era ancora finita.
Impassibile, Yato girò la spada nella ferita con un gesto secco, infondendovi un’energia talmente potente da rendere bluastra l’aria stessa intorno a lui.
Delle grida di sorpresa, stupore e speranza dietro di me non sentii nulla. Il demone millenario che aveva tenuto il villaggio schiavo della paura si stava trasformando in una gigantesca statua di ghiaccio davanti ai nostri occhi. Persino da quella distanza sentii il riverbero del freddo inconcepibile emanato dal potere di Yato.
Drago di ghiaccio. Solo in quel momento capii quanto calzante fosse quel nome, Kagematsu…
Quando Sesshoumaru… no, la statua, fu ormai immobile e silente, il bushi estrasse la spada, con un balzo scese dalla schiena del lupo di ghiaccio e lentamente si incamminò verso il villaggio.
Quando fu all’altezza del muso, rivolto a terra nelle ultime contrazioni di dolore del demone, lo colpi con forza con l’elsa.
Un singolo colpo che mandò in frantumi un incubo lungo mille anni.
Le schegge finissime sembrarono dissolversi nell’aria, mentre i venti, la tormenta e il ghiaccio, scomparvero all’improvviso.
La malvagia contaminazione del demone venne meno con la sua dissoluzione, e il freddo tornò ad essere soltanto quello dell’inverno.
Restai immobile, ammirata, incredula nonostante le mie certezze fossero salde come l’immagine più che mai eroica di Yato che s’incamminava verso di noi - verso di me? - ammantato da un potere immenso, che pure nulla era in confronto alla grandezza del suo spirito.
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #11 il: 2013-07-19 19:45:24 »
Scena 12 - Epilogo

Non lo vedevo più. Com’era possibile? Scomparso in così poco tempo...?
Dopo la distruzione del demone, il silenzio era calato sul villaggio, lunghi minuti di confusa sospensione, il respiro prima del salto.
Yato scomparve alla mia vista ben prima di raggiungermi, gli alberi del bosco celavano il sentiero. Stavo per rompere quel momento di stasi e correre da lui, quando un boato di gioia eruppe improvvisamente dalle gole di tutti gli abitanti: liberi, liberi dalla paura per la prima volta in mille anni, liberi di immaginare un futuro sereno senza l’ombra di una minaccia spaventosa a oscurarlo, liberi di non temere più l’inverno come qualcosa di terrificante e spaventoso.
Yato ci aveva donato la libertà, e tutti l’avevano compreso. Non dubitavo che avrebbero anche accettato la sua ascendenza come un dono degli Dei, una risposta alle preghiere di generazioni di antenati… e forse era davvero così.
Di certo lui era la risposta a tutte le mie preghiere, a tutti i miei sogni e a tutte le mie speranze.
Venni quasi travolta dalle persone festanti, tutti si abbracciavano e molti erano i volti segnati dalle lacrime per la felicità e il sollievo. In molti si prostrarono ai piedi della nonna, ringraziandola per tutto quello che aveva fatto per loro; alcuni lo fecero anche con me e fu difficile convincerli che in realtà io non avevo fatto niente, che il merito della nostra salvezza andava all’eroe che ci aveva salvati tutti a rischio della vita.
La nonna mi abbracciò stretta, anche lei commossa, per un lungo momento; poi mi prese il viso tra le mani sorridendo, “Il segno più importante della mia vita, sei sempre stata tu Kagura. Ti voglio bene e la mia felicità più grande sta nel sapere che potrai avere il futuro che desideri”, tacque alcuni istanti accarezzandomi le guance, “Saresti stata una magnifica sacerdotessa esattamente come sarai qualsiasi cosa tu voglia essere, mi permetto di suggerire moglie e madre”. Arrossii tra le lacrime che avevano preso a scorrere e lei rise di cuore, “Si può sapere cosa ci fai ancora qui? Hai ben altro da fare che stare qui a piangere con la tua vecchia nonna”. La abbracciai stretta, ripetendole più volte quanto le volessi bene e quanto le fossi grata per tutto, finché il cuore non si volse al mio più grande desiderio.
Verrai?
Yato non sarebbe tornato al villaggio. Festeggiamenti, ringraziamenti e congratulazioni avrebbero dovuto attendere. Lui mi stava aspettando altrove.
Corsi come non avevo mai corso in vita mia. Distrattamente mi resi conto che avevo ancora Tessaiga tra le mani, ma non vi rivolsi più di un fugace pensiero. Il mio cuore e il mio spirito anelavano una cosa soltanto: ritrovare Yato, la sua mancanza improvvisamente intollerabile, la sua voce irrinunciabile e il suo abbraccio…
Corsi nella neve di nuovo soffice sotto i calzari, come se il sottobosco non fosse mai stato tanto rado, nessun cespuglio o ramo parve ostacolare i miei passi.
La polla tuttavia non mi era mai sembrata tanto distante, tanto che iniziai a temere di non arrivare mai. Era una paura irrazionale, qualcosa che sapevo essere sciocco, ma…
La temperatura iniziò a farsi più mite nell’aria e la neve più bassa a terra. Il profumo dei vapori balsamici accese il bosco come se Sesshoumaru non l’avesse mai minacciato.
Solo una macchia di cespugli, solo alcuni tronchi, poi l’avrei vista. Sarebbe stato lì, doveva essere lì, era lì che mi avrebbe aspettata. Rallentai la corsa fino a fermarmi.
E se avessi indugiato troppo, se fossi arrivata troppo tardi o…
Scossi la testa per scacciare quei timori infondati. Non avevano alcun senso, io sapevo che Yato era là, lo sentivo nel cuore e nel calore che sentivo nell’anima.
Mi sorrise illuminando il mondo intorno a noi. I tratti demoniaci stavano recedendo lentamente, come se l’aver utilizzato tutto quel potere l’avesse stancato al punto da rallentare il cambiamento.
Immerso nell’acqua della polla fino al petto, sembrava più provato di quanto volesse lasciarmi intendere, ma anche immensamente sollevato: forse anche lui, come me, sentiva come se una tenda si fosse appena sollevata su un futuro che stava a un passo di distanza, una felicità che sarebbe stata nostra soltanto da immaginare…
Notai appena i suoi abiti ripiegati su una roccia poco distante, se mi fossi curata di altro a parte il desiderio di correre da lui, mi avrebbe sorpresa la mia assoluta mancanza d’imbarazzo per l’intimità della situazione. Ma non aveva importanza, in effetti, perché così volevo fosse la mia vita, se anche Yato l’avesse desiderato.
Il suo sguardo non mi lasciò un istante, mentre un passo dopo l’altro mi avvicinavo al piccolo specchio d’acqua circondato dal vapore; bruciava e mi resi conto che il mio doveva essere lo stesso.
Quasi mi girava la testa… si poteva morire di felicità?
L’intensità dei miei desideri mi tolse il fiato, e l’origine di ognuno di essi continuava a guardarmi sorridendo a pochi passi da me. Non sapevo cosa dire, sapevo soltanto che era  profondamente sbagliato per noi essere così distanti, che il mio posto non poteva essere che accanto a lui.
Un piccolo tonfo attutito dalla neve. Tessaiga mi era scivolata dalle mani.
La katana sacra aveva definito la mia vita fino a quel momento, il mio compito era custodirla, conservarla, non… non avrei dovuto lasciarla cadere, ma…
“Kagura, vieni qui”.
Quello era il mio passato, Tessaiga e quello che significava stavano alle mie spalle.
Corsi verso il mio futuro con il cuore talmente gonfio di gioia che temevo sarebbe finito per scoppiare.
L’acqua era calda e perfetta, ma quando Yato mi cinse con le braccia e le sue labbra ritrovarono le mie, qualsiasi concetto di perfezione dovette essere ridefinito.
“Grazie”, baciò le lacrime che non ero riuscita a trattenere, e la dolcezza di quel gesto ne strappò altre ai miei occhi, “Grazie a te… sei tornato..!”. Sorrise accarezzandomi i capelli, “Ne dubitavi?”, scossi la testa e lui mi baciò di nuovo, “Ti amo Kagura, è solo qui che voglio stare, solo con te. Se lo vuoi anche tu”.
Alzai le mani ad accarezzargli il viso, non avrei provato nemmeno a trattenere le lacrime, “Ti amo anch’io… Dei… ti amo infinitamente e non voglio esistere lontana da te”.
Smise di stringermi soltanto per slacciare l’obi e quando le sue mani trovarono la mia pelle cessai di pensare. L’eterna perfezione dell’amore stava intorno a noi, in noi.
Tutti i miei pensieri erano suoi.
Tutti i miei respiri. Ognuno dei battiti del mio cuore. Sua in ogni parte del mio essere. Per sempre.

Fine.
[/i]
^Alessia^

Alessia Bartolacelli

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Re:[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura
« Risposta #12 il: 2013-07-19 19:49:01 »
E così si conclude la narrazione di Kagura e del suo Drago di Ghiaccio, spero che leggerla vi sia piaciuto quanto a lei viverla e a me giocarla.
Grazie a Giulia per avermi fatto conoscere questo splendido gioco, e a Marco e Alessandro per averlo condiviso con me... mi hanno dato filo da torcere lo ammetto! ;)
^Alessia^

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