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Post - Gabriele Baldassarre

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Quel personaggio magari si chiama come te e rappresenta la tua personale immagine di cosa faresti tu in quella situazione, ma è "immaginario" esattamente come se ti immagini di essere un guerriero vichingo: "cosa farebbe Ulfar il sanguinario in questa situazione?" "cosa farebbe un Gabriele Baldassarre di un mondo alternativo dove è arrivata l'apocalisse e si aggirano gli zombi in questa situazione?". In pratica in gioco è difficile o facile uguale visto che anche Ulfgar non è che un te stesso alternativo (magari con diversa personalità... come tutti i se stessi alternativi.

Non sarebbe un gdr solo se non fosse immaginato, cioè solo se ti chiudono DAVVERO (nella realtà) in una stanza con uno zombie.

Non so, tutte queste paure (e qui non parlo solo del giocare sè stessi, ma anche altre che si sentono in giro, sul giocare senza GM, giocare con donne, giocare giochi non fantasy, giocare senza dadi, giocare live, etc.) mi sembrano tutte varianti della stessa paura dell'ignoto, e mi ricordano i galli di Asterix che hanno paura che il cielo gli cada sulla testa,...

non è una questione di paura di un certo tipo di gioco o di sfatare un certo tipo di "dogma" di gioco. Giocare se stessi non è un "problema" è solo più difficile, e pertanto potenzialmente più insoddisfacente.

in un gioco di ruolo l'alterazione di se stessi è uno strumento potente per abbattere un certo tipo di "resistenze" sociali e - leggevo nemmeno a farlo apposta proprio pochi giorni fa - a sviluppare una  http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_della_mente che rende le emozioni di gioco più profonde (secondo l'autrice dell'articolo suddetto), perché costringe a proiettarsi in un indipendente "contesto" emotivo.

ma al di là di questo, è chiaro che Ulfar sono io e, inconsciamente, e questi si comporterà come me ed avrà molti dei miei stessi valori (o la nemesi degli stessi, per contrapposizione), ma poiché è Ulfar ho l'alibi per condurre con esso azioni diverse e avere un percorso "eroico" diverso, che porta a sacrifici diversi con personaggi diversi. Di fatto, è come se abbassassi il livello di rischio.

ma se nel gioco sono proprio IO, con un GM che magari fa vivere indicibili orrori alla mia famiglia o ai miei affetti (estremizzo), potrei avere delle resistenze emotive maggiori, o ancora potrei magari non fare delle cose perché per gli amici al tavolo...quello sono proprio io.

inoltre i giocatori al tavolo condividono un mondo condiviso e in quel mondo fanno parte di una comunità, ma non è detto che IO mi senta di appartenere alla stessa comunità degli altri giocatori attorno al tavolo (cioè, non è automatico).

a meno che non stia giocando ad un personaggio che è la versione alterata di me ma che, fatalità, si chiama come me...se così fosse ok, ma allora è solo marketing...

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ma mi pare sia per dire che uno giocherà PG umani normali in una situazione apocalittica e non persone sovrannaturali. Considerando il mondo dei giocatori GDR altrimenti un talento come Natural Leader o come Wants Revenge non avrebbe senso  ;) :D

credo di no. Nel gioco uno giocherà SE STESSO.
nella sua città, con i suoi familiari, con i suoi amici.

suppongo (anzi, voglio credere...in effetti non lo dice) che questo sia il pretesto di partenza per una digressione ucronica; questo potrebbe essere divertente nel breve, oppure generare un incasinatissimo pastiche.

sui talenti...non a caso trovo quei talenti (ed i talenti motivazionali in genere) una vera scemenza, in un regolamento di gioco :) ma questa ovviamente è solo la mia opinione

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Stando ad una nota sul sito Fantasy Flight Games stanno lavorando ad un GDR apocalittico seriale in cui i giocatori interpretano se stessi.

http://www.fantasyflightgames.com/edge_news.asp?eidn=5027

impatto scenico poderoso, idea senza dubbio originale, climax notevole ma secondo me...non funziona...

dov'è l'alterazione di sé giocatore -> personaggio che è uno dei punti di forza di un gioco di ruolo?

la loro ipotesi è che per vivere uno scenario epico e il proprio personale cammino dell'eroe basta cambiare il mondo, mentre non c'è bisogno di cambiare (quantomeno esteriomente) sé stessi

eppure ho SERI dubbi che questo meccanismo funzioni...anche solo (ma non solo) per una questione dei meccanismi di autodifesa mentale che si ingenerano nei giocatori stessi....mah...

sbaglio?

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Sotto il cofano / Re:Ritualità e riti di passaggio
« il: 2014-09-01 12:44:41 »
Sono un po' confuso, e quindi ti chiederei un chiarimento: non capisco a che livello parli di "riti". Sono riti eseguiti dai giocatori, al tavolo (tipo, tirare i dadi in un certo modo, o consocere l'ambientazione)? Sono riti eseguiti dai personaggi (uccidere un mostro, conquistare la dama,...)?
E il "ritorno", è ai personaggi o ai giocatori?

Cioè, in cosa consistono ad esempio questi riti, come si fanno secondo te, cosa si ottiene, e perchè è importante?

All'inizio pensavo anche io soltanto ai riti eseguiti dal personaggio, che hanno un ritorno gratificante al giocatore (posto che ci sia una certa empatia tra giocatore e il suo personaggio). E questi sono di fatto dei "surrogati" di riti di passaggio ancestrali, laddove questi riti non siano più socialmente accettabili, condotti da personaggi eroici (anche in senso negativo).

Pero' Simone mi ha fatto riflettere e osservare che anche i giocatori sono accumunati da rituali collettivi, per esempio la conoscenza profonda e una fiducia incondizionata in una certa cultura di genere (o anche solo di una ambientazione, un regolamento complesso, ecc.). Un collante FORTISSIMO tale da tenere sulle sedie, seduta dopo seduta, persone anche se di simile estrazione culturale, ma con giochi effettivamente primitivi e incoerenti.

Scenari opposti ma mossi dalla stessa necessità di comunicare, penso per desiderio di affermazione ed accettazione.

In effetti si dice spesso che i giochi che richiedono una costanza seriale sono un po' passati di moda e che per coinvolgere le persone piu' giovani ci vogliono giochi dall'ingresso meno ripido o dalla preparazione piu' breve, perché i ventenni di oggi (estremizzo) non hanno voglia di eccessivi sbattimenti o non hanno tempo o cose del genere.

Eppure non credo che i ventenni del decennio d'oro del gdr tradizionale (tra cui io stesso) fossero meno impegnati dei ventenni di oggi, o che avessero meno cose da fare. Ma a questi non infastidiva il vedersi settimanalmente a casa di Mario per giocare, per dirci, al Richiamo di Chthulhu. Anzi, avvertivano (avvertivamo) un certo disagio malinconico quando si rompeva questa ritualità.

Quello che è cambiato in questo ricambio generazionale è l'accesso alla cultura di genere, e il suo sdoganamento fino ad un mezzo espressivo "quasi" mainstream. Cosi', rotto il senso di appartenenza ad una elite, di colpo la serialità diventa una palla al piede ed i giochi mostrano la loro incoerenza (che hanno sempre avuto, ma a cui nessuno aveva mai seriamente pensato).

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Sotto il cofano / Re:Ritualità e riti di passaggio
« il: 2014-08-31 21:56:36 »
Grazie Moreno per il richiamo, cerco di ripartire dal gioco concreto, ma non ti nascondo delle difficoltà in tal senso, ed è più probabile che riuscirò meglio a focalizzare solo nel corso della discussione.

Sul discorso ritualistico, credo che gli esempi citati da Simone siano molto calzanti e definiscono una certa ritualità, ma non hanno una attinenza al gioco in senso stretto (sembrano più un "requisito" sociale, mentre invece io pensavo a qualcosa che "sostituisse" una dinamica ritualmente riconosciuta).

In termini di gioco concreto ricordo bene, una volta di molti anni fa, di quando dal mio gruppo principale di CoC si creò uno "spinoff" che comprendeva me, il GM e un altro giocatore e che era costruito allo scopo di iniziare altri amici al gdr (una sorta di "anticamera"). Complice anche il gioco, quel CoC che si basa molto sulla conoscenza del mondo/miti come metro per misurare il proprio riconoscimento come giocatore nel gruppo, ricordo bene che si era creata una specie di inconsapevole complicità sorniona tra noi due giocatori e il GM. Complicità che, peraltro, minava il contratto sociale delle new entry, "escluse" inconsciamente perché non iniziate a quei rituali.

Mi sto sforzando di chiudere perché queste digressioni sono profondamente offtopic, ma ammetto che sarei tentato di continuare! Chiudo invece citando un articolo trovato in rete:

Citazione
Il rito viene inteso come il momento in cui l'aggregazione e la polarizzazione psicologica che ne deriva fanno sì che ogni individuo si senta pervaso dalla forza collettiva che solitamente percepisce come esterna: da ciò lo stato di "effervescenza" collettiva che si determina. Riti come il sacrificio, la festa, il potlatch, ecc., interrompono l'andamento quotidiano (profano) dell'esistenza, istituendo un momento comunicativo più intenso e ricco di significati per la comunità e l'individuo, con una spinta verso il sacro, il superamento dei limiti dell'individuo, eccetera;

L'articolo continua dicendo come la ritualità sia un elemento indispensabile per la comunicazione, e questa stessa sia un mezzo imprescindibile per l'identificazione univoca dell'individuo.
Questo mi porta a pensare che esista un canone codificato nel gioco di ruolo e un unico intento sociale fortemente spirituale che spinge a giocare.

Il che ha delle implicazioni forti. Tanta teoria di gioco si basa sul bisogno di condividere un certo tipo di creatività, mentre io penso che invece il bisogno sia piuttosto da ricercare in questa specie di sacro furore comunicativo.

Sul rito di passaggio, non è una esperienza molto significativa, ma è una esperienza: quando facevo il GM per proporre il GdR che ho creato e che tempo fa avevo in vendita, mi sono trovato a narrare per gruppi molto eterogenei, di cui molti adolescenti e quindi poco in target con lo storytelling che io avevo in testa. Masterizzare degli adolescenti lo avevo gia' fatto molti anni prima...ma quando ero adolescente anche io :) Cosi', mentre io non facevo che esporre un copione senza alcun trasporto emotivo e loro si divertivano a piu' non posso, mi sono trovato a chiedermi: perché gli adolescenti giocano a uccidi il mostro, arraffa il tesoro e scappa? Perché la maggior parte di loro, con una frequenza probabilisticamente inspiegabile, mi ha chiesto di essere accompagnata da un famiglio o cmq una fiera in qualche modo assoggettata?

In quale momento dello sviluppo un individuo smette di avere un immaginario complesso e non lineare tipico dell'infanzia e, se vogliamo, regredisce al desiderio di narrare un immaginario cosi' barbarico?

Ritengo che sia un modo per esprimere virilità, che a sua volta simboleggia l'avvenuto passaggio all'età adulta. Prima l'etica cristiana e poi la migliorata cultura (che ha eliminato il "rito" per un adolescente di consumare il suo primo atto sessuale con una navigata prostituta) hanno ridotto queste occasioni tribali, e la finzione interpretativa ha riempito questi spazi. Anche il famiglio è collegato a questo archetipo ancestrale, perché simboleggia la natura assoggettata.

Anche questa considerazione mi porta a pensare che il bisogno di narrare le versioni ideali (o degenerate) di sé stessi possa essere scandito da altrettanti bisogni spirituali.

Spero di riuscire a ritornare nel solco del concreto quanto prima, per non prendermi un altro rimprovero da Moreno :) Comunque, la domanda principale è: tutto cio' può aiutare a creare giochi piu' appaganti per i giocatori?

EDIT:
Raccolti i suggerimenti di Lavinia e rimosso ogni riferimento alla religione, in quanto in ogni caso rappresentava un elemento non importante o comunque non centrale della discussione. Corretti anche alcuni mistypes e orrori grammaticali :)

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Sotto il cofano / Ritualità e riti di passaggio
« il: 2014-08-31 17:18:44 »
Ho detto che, dopo diversi mesi/anni di read-only avrei cominciato a proporre argomenti volti a generare una discussione...e mantengo fede alla parola data :)

Tempo fa scrissi sul mio blog un articolo nel quale volevo esporre il mio pensiero sul canone del gioco di ruolo, o per meglio dire sul perché gli esseri umani trovano appagamento a vivere un certo tipo di esperienza interpretativa (quale che sia). Devo dire che citai leggerissimamente alcuni punti legati ai giochi "new wave", convinto che essi hanno fallito, al pari di molti altri giochi (non solo di ruolo) a sostenere un certo tipo di canone, ma era solo una digressione di poco conto e comunque del tutto generale, non era uno j'accuse né tanto meno una presa di posizione del movimento e dei giochi che hanno prodotto. Ne conseguì ciononostante un flame abbastanza aggressivo (e onestamente fuori luogo) e alla fine più che altro l'articolo fu snobbato senza che sia riuscito a far nascere il desiderato dibattito.

A distanza di un paio di anni, ora che gli animi sono un po' meno infiammati, vorrei riprovare.

A seguito di alcune letture legate alla forza di alcune tipologie sociali e dopo aver letto, in chiave esclusivamente antropologica (da profano, si capisce), alcuni testi e manifesti diciamo "esoterici", mi sono posto alcune domande: cosa spinge gli esseri umani a giocare di ruolo? Qual'è il collante sociale tale per cui delle persone decidono di condividere un spazio creativo e sottostare alle sue leggi, visto che, oltretutto, queste leggi sono scritte da un soggetto esterno, ovvero sono elementi al di fuori del nostro controllo? Quali sono le forze che spingono, assistiti naturalmente da un opportuno gioco, a far convergere gli intenti creativi su un unico punto?

Il Big Model parte da una legge di Maxwell, se vogliamo, solo enunciata e non postulata ed è quella della assodata volontà di perseguire un certo tipo di intento creativo da parte di tutti i giocatori attorno al tavolo. Non possiamo dire nulla sul perché abbiamo questo desiderio?

Sappiamo che nel gioco di ruolo si trova SEMPRE una convergenza, piu' o meno soddisfacente e piu' o meno fluidificata dal gioco e dalla sua coerenza. Non è automatico che l'intento sociale sia raggiunto e le partite possono fallire, ma è innegabile, secondo me, che ci siano delle forze attrattive in questo senso, da parte di persone fondamentalmente diverse tra di loro.

Tempo fa la risposta che mi diedi fu nella ritualità. Vedevo nel gioco di ruolo, chiamiamolo "tradizionale" (parpuzio in questo contesto forse è un po' infamante eheh), uno strumento di convergenza rituale. In pratica, il contratto sociale sottoscritto dai partecipanti risiedeva nella comune volontà ad essere unici depositari della conoscenza e quindi nella condivisione di uno spazio immaginario condiviso. Lo sforzo sostenuto per far convergere le esperienze è compensato, in un certo senso, dalla gratificazione del far parte di una setta. Questo giustifica la dedizione a cui i giocatori di ruolo si dedicano nel corso degli anni, con le sedute settimanali lunghe anni a cui siamo tutti abituati.

Ma ora sono quasi convinto che quello sia lo strumento, non lo scopo. Ecco la mia provocazione: ritengo che la gente giochi di ruolo (in senso ampio) perché nella società moderna, per convenzioni che sono state amplificate (ma non generate esclusivamente) dalla religione cristiana, l'uomo è stato privato della sua capacità di condurre i propri riti di passaggio, di iniziazione (verso l'età adulta, ecc.). In senso non molto figurato, con l'esempio piu' banale e riduttivo possibile: uccido l'orco nel dungeon perché non posso uccidere la tigre dai denti a sciabola nella foresta.

Non è una cosa che renderei esausta nella sfera del gioco di ruolo (il cammino dell'eroe parte dallo stesso presupposto, secondo me), ma nel gioco di interpretazione l'empatia che ne consegue col proprio personaggio rende il fenomeno quasi spirituale, proprio come tali riti di iniziazione di cui, appunto, siamo privi e di cui, se quel che dico ha un senso, sentiamo ancora il bisogno...

voi che ne pensate?

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Approfitto del primo messaggio per me in questo forum (anche se lo leggo da tempo immemore) per salutare tutti :)

io sarei interessato a giocare ai giochi sopracitati (ho poca esperienza sul genere, ma grande curiosità), soprattutto se nel comune di Milano

a tal proposito, posso tranquillamente ospitare (anzi, potendo scegliere lo preferisco) e mettere un numero congruo di pizze surgelate nel forno :D

ciao,
gabrio

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