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[Kagematsu] [DilemmaCON] Dagli occhi di Kagura

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Giulia Cursi:
La sessione di Kagematsu a DilemmaCON vista dagli occhi di Kagura, la giovane apprendista sacerdotessa.
È in questa sezione del forum perché si tratta di sola fiction, più delle aggiunte da parte di Alessia che comunque danno un tocco in più per ricreare l'atmosfera. Ci sono tanti riferimenti a Inuyasha, così per dimostrare che non è necessario conoscere la storia giapponese, il periodo Eo o ogni mito per giocarlo.



Un arrivo inaspettato / L'arrivo di Kagematsu al villaggio

L’uomo sotto la pelliccia era un samurai, anche senza notare la ricchezza dei suoi abiti o l’armatura legata al cavallo, sarebbe bastato gettare uno sguardo alle spade che teneva al fianco per saperlo. Ma soprattutto era un uomo che aveva bisogno d’aiuto.
La guerra lontana dei Daimyo aveva privato il villaggio di quasi tutti i suoi uomini: chiunque fosse in grado di reggere le armi era partito con le truppe, a sud, strappati alle montagne che li avevano visti nascere e diventare uomini. Chissà in quanti avrebbero fatto ritorno, un giorno…
Quest’uomo non era tra coloro che erano partiti. Non l’avevo mai visto prima e non seppi individuare alcuna simbolo riconoscibile sui finimenti del cavallo o sulle sue vesti.
Malgrado la stanchezza lo facesse procedere incurvato e lo obbligasse ad appoggiarsi a noi, era imponente e aveva qualcosa che non sapevo spiegarmi… intorno a lui vi era un’aura che mi colpì profondamente. Chissà se anche Oharu l’avvertiva… probabilmente no, sembrava soltanto molto preoccupata per le sue condizioni. Era stata lei, per prima, ad accorgersi dell’arrivo dello straniero nel villaggio: l’aveva coperto con una delle pelli che il suo anziano padre lavorava solitamente, temendo che il freddo stesse per avere la meglio sulla sua resistenza, quindi aveva chiesto aiuto per portarlo al tempio.
Mentre cercavo di sostenerlo sentii la presenza sotto gli abiti di un altro oggetto, probabilmente un’altra arma, ma non vi rivolsi più di un frammento di pensiero perché lo straniero alzò appena la testa sotto il largo cappello.
Intorno a noi la prima neve d’inverno sembrò cadere più intensamente, un contrasto talmente netto con il colore dei suoi occhi che quasi rabbrividii.
Mia nonna sosteneva che gli Dei disseminassero il mondo di segni.
Non potei fare a meno di domandarmi, mentre procedevamo lentamente verso il tempio e le cure di cui sembrava avere un grande bisogno, se l’arrivo dell’uomo dallo sguardo d’ossidiana fosse uno di essi.


Scena 1 – Un sorriso

“Kagura”, la voce della prima sacerdotessa mi strappò improvvisamente ai miei pensieri. La guardai senza nemmeno provare a nascondere la mia distrazione, non avevo scusanti e… non mi era mai accaduto, prima.
“Perdonate oba-sama, non…”, non riesco a concentrarmi e non ho idea del perché.
Non potevo dirglielo, non questo.
L’anziana donna scosse la testa e il suo sguardo si addolcì tornando ad essere quello della nonna che mi aveva cresciuta da che potevo ricordare, “Non dimenticare i riti di purificazione bambina, poi potrai occuparti dei manoscritti se lo vorrai. A cena parleremo di nuovo”. Sorrise convinta forse di avere compreso cosa continuasse a rapire i miei pensieri, ma non poteva… nemmeno io stessa lo sapevo, di certo però non erano i manoscritti e nemmeno i riti stagionali e forse nemmeno la scelta che avrei dovuto prendere.
Non era infatti al consacrarmi o meno agli Dei che pensavo percorrendo lentamente i corridoi del tempio, senza che alcun suono accompagnasse i miei passi.
Lo vidi nella sala dei venti, inginocchiato sul tatami, intento ad occuparsi delle sue armi.
Per lunghi istanti non riuscii a smettere di osservarlo, silente come le statue degli Dei che, intorno alle pareti, osservavano con occhi di pietra Tessaiga, la spada reliquia che era il nostro tesoro più prezioso e che avevo l’onore di custodire e curare io stessa.
Per una volta tuttavia, non fu la Lama dei Venti a catturare il mio sguardo.
I suoi movimenti erano lenti e precisi, frutto di esperienza e perizia senza dubbio, come se il tempo o il mondo non potessero in alcun modo interferire con la serena imperturbabilità del Bushi. Non l’avevo più visto da quando la nonna l’aveva preso sotto le sue cure, alcuni giorni prima, eppure mi resi conto in quel momento di non averlo lasciato un istante.
Si era preso i miei pensieri e volevo sapere perché.
Essendo la custode della katana sacra avevo familiarità con le armi e non mi occorse molto per rendermi conto di quanto le sue fossero pregiate e ottimamente conservate: il tanto e il wakizashi erano semplici e perfetti, neri come la notte nel fodero e nell’impugnatura, ma la katana era completamente bianca, il fodero finemente inciso a foggia di drago, in esso riconobbi il Dio Drago di ghiaccio, che alcuni chiamano Ryujiyn, o Kagematsu.
Accanto all’uomo inginocchiato stava un tessen aperto, un’arma di letale e aggraziata bellezza come ancora non ne avevo mai viste, sul tessuto tra le lame erano tracciati i versi di un sutra.
I segni.
Forse avrei dovuto procedere oltre, ma non lo feci. Non avevo bisogno di leggerlo sul tessen per ripetere mentalmente le parole del sutra dell’amore.
Il guerriero richiuse il ventaglio e lo ripose rispondendo al mio inchino con un gesto del capo, non sembrava infastidito dalla mia intrusione, o se lo era non lo diede a vedere.
Ai piedi dell’altare su cui era posta Tessaiga presi la piccola giara di giada che conteneva gli oli benedetti, mi inginocchiai invocando la benevolenza degli Dei e rivolsi nuovamente la mia attenzione allo straniero che continuava in silenzio ad occuparsi delle proprie armi.
Avevo ragione su di lui: era un uomo imponente, sembrava molto giovane, forse pochi inverni più vecchio di quanto non fossi io stessa, ma qualcosa nel suo sguardo raccontava altro. I suoi erano occhi che avevano visto molto più di quanto non sembrasse, forse era quello di lui che continuava a richiamare i miei pensieri.
“Le vostre sono armi di grande bellezza mio signore”, “Ti ringrazio”. La sua voce era profonda quanto i suoi occhi, quanto sarebbe stato un salto in acque perfettamente immote; mi trovai a pensare a come sarebbe stato sentirlo leggere il sutra che portava sul tessen.
Se anche il corso dei miei pensieri fosse stato tradito, ugualmente non me ne curai e gli porsi la piccola giara, “Questi sono gli oli cerimoniali del tempio, anche di essi sono la custode”, non sapevo perché, ma ero quasi certa sapesse di me più di quanto desse ad intendere, “Ve li offro, per la vostra vita”.
La katana rappresentava la vita di un samurai, la via del Bushido, intimamente legata a ciò che è e che può diventare.
Lo sguardo d’ossidiana percorse la lama snudata per tutta la sua lunghezza, seguendone i riflessi, “Può darsi. Ti ringrazio, ma questa… queste”, accennò con lo sguardo alle armi che aveva davanti, “sono soltanto armi, strumenti”. Era forse malinconia l’eco che sentii nella sua voce?
Qualunque cosa fosse, non potevo ignorarla più di quanto non potessi distogliere l’attenzione da lui. “Dite il vero, tuttavia…”, tacqui alcuni istanti cercando con gli occhi l’immagine familiare di Tessaiga, “Ogni strumento racchiude un significato. E’ il significato a essere davvero importante, qualunque cosa sia a rappresentarlo. Vi prego mio signore, se può esservi gradito accettate questo modesto dono”.
Prese la giara dalle mie mani senza sfiorarle, mi guardò e mi sorrise.
E il mio cuore mancò distintamente un battito.
A ricordarmi come rispondere fu soltanto l’abitudine, mi inchinai leggermente a salutarlo prima di lasciare la sala per tornare ai miei compiti, avevo forse trovato più risposte di quante ne cercassi, eppure il dubbio mi stringeva con ancor maggiore forza.

Lasceremo che il nostro amore pervada l’universo intero, in tutte le direzioni
Il nostro amore non conoscerà ostacoli
Il nostro cuore sarà assolutamente libero da rancori e ostilità
Questa è la più nobile maniera di vivere

Giulia Cursi:
Scena 2 - Uno sguardo rubato e una parola gentile

Quale che fosse il motivo, nei giorni successivi vidi il bushi sempre più spesso. Lo incrociavo nei corridoi, lo scorgevo nei giardini… sembrava che i miei occhi non potessero fare altro che trovarlo.
Dovevo smettere di comportarmi così. Non era consono al mio ruolo, né al mio rango, lo sapevo.
Eppure…
Assorta in tali riflessioni, vidi Oharu percorrere il sentiero innevato verso il tempio. Non mi vide e io non feci nulla per rendere nota la mia presenza. Sembrava che la giovane figlia del mastro pellaio capitasse al tempio sempre più spesso ultimamente, e non era la sola: persino Higurashi-san, la padrona dell’onsen, era venuta più di una volta a portare offerte agli Dei… e doni al nostro ospite.
Fissai lo sguardo sul cielo plumbeo e sui primi fiocchi della giornata. Gli Dei sembravano indecisi e la neve era ancora quella candida e soffice dei primi giorni d’inverno, bianca come le vesti del samurai sconosciuto… scossi la testa e presi un lungo respiro nell’aria fredda. “Che cosa mi prende..?”, né il cielo né la brezza mi risposero, ma l’eco dello sgradevole sentimento che sentivo lambirmi l’animo ritornò prepotentemente sentendo Oharu chiedere del bushi a una delle sacerdotesse.
La nonna apprezzava molto Oharu, riteneva fosse una giovane di buon cuore, molto devota alla famiglia e agli Dei, una brava ragazza che sarebbe stata un giorno un’ottima sposa per un giovane fortunato. Anche a lei, come ad altri tra i bambini del villaggio, aveva insegnato le basi della lettura e della scrittura; si sarebbe quasi potuto pensare che eravamo cresciute insieme, io e lei.
Crescendo però mi ero allontanata dal mondo dei miei coetanei per approfondire gli studi come futura sacerdotessa ed erede della nonna, avevo così perso molta della confidenza che avevo avuto con lei, ma… questo non mi giustificava di certo. Al contrario.
Provare simili sentimenti era profondamente sbagliato da parte mia, non faceva che sottolineare come fossi ancora immatura e immeritevole dell’onore di servire gli Dei.
Dovevo purificare in qualche modo la mente e lo spirito, e il solo luogo che poteva aiutarmi era la cascata dei petali bianchi.
Indossai velocemente la sopraveste, senza curarmi di prendere un copricapo. Avevo sempre amato la carezza della neve sulla pelle.
Non impiegai molto a raggiungere la mia meta. Conoscevo tutti i sentieri e avrei potuto percorrerli a occhi chiusi in qualsiasi stagione, ma nonostante questo non potevo dire di conoscere davvero la montagna e i fitti boschi che circondavano il villaggio; avevo come la sensazione che vi fossero angoli di paradiso nascosti appena oltre il mio sguardo, tanto irraggiungibili quanto desiderati, bramati come soltanto la promessa di un ignoto piacere poteva essere.
La neve morbida, di un candore abbacinante, accarezzava i calzari e l’orlo delle vesti sfiorandoli a malapena, quasi non avvertivo la fredda ed esitante carezza dei fiocchi sul viso. Ogni passo mi faceva sentire più vicina alla serenità, ogni respiro mi calmava più del precedente, finché ben presto udii il cristallino suono della cascata.
Nessuno strumento avrebbe mai potuto eguagliare la melodia perfetta dell’acqua; quella degli uomini, dopotutto, non era che il pallido riflesso della musica degli Dei.
Sedetti in ginocchio nella neve, sempre nello stesso luogo ogni volta, ritrovandomi quasi immediatamente a seguire sull’acqua i riflessi della luce che tanto mi erano familiari.
L’accenno di un sottile strato di ghiaccio era comparso ai margini del laghetto, tuttavia l’acqua non ghiacciava mai completamente grazie alla cascata e i piccoli pesci koi non avevano nulla da temere, ben abituati oramai al clima rigido. Li osservai rincorrersi dove l’acqua era poco profonda finché non avvertii il bisogno di alzare lo sguardo.
Era lì. Di fronte a me, dalla parte opposta del laghetto, il mantello di pelliccia sulle spalle ma anche lui senza copricapo, i capelli nerissimi e brillanti nel bianco che lo circondava. Per un momento parve assoluto e irraggiungibile come sarebbe stato un kami dei ghiacci.
Un pensiero, quello di non poterlo raggiungere, che per un attimo mi strinse dolorosamente il cuore.
Mi salutò senza mostrare alcuna sorpresa, tanto che mi domandai se in qualche modo sapesse che mi avrebbe trovata qui.
Sedette a poca distanza, anche lui fissando le lievi increspature sulla superficie. Il silenzio tra noi era interrotto soltanto dall’acqua, ma non era affatto sgradevole: era come se entrambi fossimo lì per lo stesso motivo, c’era qualcosa di… giusto che non sapevo come spiegare, nemmeno a me stessa.
Il bushi allungò una mano ad accarezzare l’acqua. Sfiorò la superficie con la punta delle dita, apparentemente senza provare alcun fastidio per la temperatura dell’acqua, che pure sapevo essere gelida. I riflessi della luce tremarono, sfiorati dal suo tocco, rincorsero le sue dita come se non volessero lasciarle, era… era come una danza leggera tra la luce e l’acqua. Distogliere lo sguardo fu difficile.
Immersi entrambe le mani nell’acqua lentamente, come non volessi disturbarne i riflessi. Intorno a noi la neve creava l’illusione di un mondo purificato da ogni male.
Alzai gli occhi a seguire la lenta discesa di un candido fiocco di neve, quel singolo frammento di perfezione era unico e sarebbe stato diverso da ogni altro, una bellezza infinita e pericolosa come il ghiaccio che era la sua natura.
L’acqua che mi lambiva i polsi era gelida come l’abbraccio dell’inverno, eppure mi trovai a desiderarne il contatto; c’era qualcosa… qualcosa che rendeva quel momento un istante di potere.
Sollevai le mani a coppa, portando con me un po’ dell’acqua del lago ad accogliere il fiocco di neve che i miei occhi non avevano ancora lasciato: il cristallo di neve galleggiava sfiorando appena la superficie, senza disfarsi, non ancora… sapevo che lui mi seguiva, era come se potessi sentire il suo sguardo. Volevo mostrargli la perfezione del cristallo di neve perché in essa vedevo il suo riflesso.
Soltanto quando mi resi conto di questo pensiero alzai lo sguardo.
I suoi occhi incatenarono i miei in un frammento d’istante, un momento eterno in cui a rallentare era il respiro stesso del mondo. Mi sentii affondare, mi lasciai andare. Sapevo… no, sentivo che alcun pericolo avrebbe mai potuto sfiorarmi.
Ma… potevo farlo?
Una sacerdotessa consacra sé stessa agli Dei. Una sacerdotessa non esiste per sé, ma per la sua gente. Potevo io essere prescelta dagli Dei nonostante…
“Non temete il freddo?”, la sua voce richiamò i miei pensieri, ma spezzò anche l’eternità del cristallo. Lentamente liberai l’acqua che gli era stata madre e tomba al contempo, mi concentrai sulla carezza purissima che scorreva tra le mie dita.
“No. Conosco ciò che può fare, pertanto evito la sua ira. Ma senza di esso questo…”, accennai alla cascata e al lago, alla neve che ci circondava, alla magia dell’istante appena trascorso che ancora mi bruciava il cuore, “non sarebbe possibile. Come potrei ignorare tanta bellezza soltanto per timore?”.
Sorrise sollevando la manica dell’haori fino alla spalla, rivelando un braccio saldo come il ramo di una giovane quercia eppure all’apparenza levigato quanto il ghiaccio. Lo immerse completamente nell’acqua senza che la sua espressione si alterasse minimamente, aveva visto qualcosa sul fondo e lo afferrò con la sicurezza di un falco.
Sollevò il braccio e mi porse il pugno chiuso. La sua pelle non mostrava il minimo segno di disagio per il contatto con l’acqua gelida.
“Ho parlato a lungo con tua nonna. Dice che non hai ancora deciso di consacrarti agli Dei e si domanda perché”, non aprì il pugno né lasciò i miei occhi. Non mi aveva domandato nulla, come se potesse leggere le risposte nel mio sguardo.
Avevo sbagliato nelle mie considerazioni poco prima: non era qualcosa ad avere potere, ma qualcuno. Il samurai dallo sguardo d’ossidiana aveva lo stesso misterioso fascino della neve ai miei occhi.
“Diventare una sacerdotessa è un onore che non sono sicura di meritare”, risposi con la verità alla domanda che lui non aveva posto, ma che ogni giorno sentivo echeggiare nel mio spirito. “Spesso la via che si dipana ai nostri piedi non è chiara come lo vorremmo”, tacqui qualche istante riflettendo attentamente prima di continuare, “e nessun altro può vederla per noi”.
Fu allora che aprì il pugno a rivelare un piccolo ciottolo di ambra, levigato dalle acque della cascata fino alla brillantezza di un gioiello. Lo presi lentamente dalle sue mani e vidi che al suo interno era racchiuso un piccolo scarabeo smeraldino, la bellezza di quella goccia di ambra con il suo tesoro racchiuso all’interno era straordinaria e preziosa come non avrei saputo dire.
Incantata, la osservai per un lungo momento prima di restituirgliela.
“Un tesoro può essere nascosto dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo”, non lasciò mai i miei occhi mentre parlava e fui soltanto vagamente consapevole del ritorno dell’ambra alle acque del lago.
“Oppure può essere esattamente dove lo si cerca”, con la mano destra scostò delicatamente la neve che stava tra noi fino a scoprire il terreno sottostante, liberando ai miei occhi un singolo perfetto fiore bianco.
Come facesse lui a sapere che l’avrebbe trovato proprio in quel punto, come potesse un fiore tanto delicato essere sopravvissuto al freddo abbraccio della neve invernale… ogni interrogativo perse importanza, solo i suoi occhi, soltanto la sua voce…
Quanti segni potevo concedermi di vedere?
“Dovresti riflettere su questo”, mi sorrise ancora e si alzò per tornare al villaggio. Non riuscii a lasciarlo andare finché gli alberi non lo nascosero alla mia vista.
Restai alla cascata ancora qualche tempo, facendo ciò che il bushi aveva consigliato, finché la luce non iniziò a scemare. Prima di tornare però mormorai una preghiera e raccolsi il fiore per conservarlo tra le pagine del sutra del cuore, quello che sempre accompagnava i miei passi. 

Alessia Bartolacelli:
Scena 3 - Un momento condiviso

La neve aveva iniziato a cadere con maggiore insistenza da un paio di giorni. La nonna non ne parlava, ma sapevo che era preoccupata per qualcosa legato alla minaccia.
La minaccia era il nome che nel villaggio si dava al pericolo che incombeva da mille anni sulla montagna, al motivo per cui era stato edificato il tempio: Sesshoumaru, il demone lupo delle tempeste.
Sempre, all’inizio della stagione invernale, la nonna e gli abitanti del paese si facevano più tesi e silenziosi; d’estate, quando il sole brillava alto e caldo sulle chiome degli alberi, era più facile pensare che fossero soltanto storie per spaventare i bambini.
D’inverno era diverso. Si temevano i segni e come sacerdotessa sarebbe stato mio compito vigilare su di essi, custodire il tempio significava custodire il villaggio e il sigillo del demone.
Questo compito però apparteneva ancora alla nonna. Il mio per ora era studiare, prepararmi a succederle e… custodire Tessaiga certamente. Secondo la tradizione era la spada che aveva sigillato Sesshoumaru nei tempi antichi, se il peggio fosse accaduto forse la Lama dei Venti avrebbe nuovamente salvato il villaggio, a patto di trovare una mano degna a brandirla.
“Sono soltanto strumenti…”, mi tornarono alla mente le parole del samurai sulle armi. Se davvero avesse avuto ragione, allora Tessaiga da sola non sarebbe stata sufficiente se fosse accaduto il peggio. Mi chiesi se la nonna lo sapesse e se fosse in ansia, all’inizio di ogni inverno, proprio per questa ragione.
Nei giorni successivi al nostro incontro alla cascata avevo riflettuto attentamente su quello che aveva detto il bushi. Difficilmente, in effetti, ero stata in grado di pensare ad altro, e sempre soltanto per poco, il tempo strettamente necessario a svolgere al meglio i miei compiti.
La sua voce mi seguiva nei ricordi e ne rincorrevo l’eco persino nei sogni…
Non avevo ancora preso la decisione di consacrarmi agli Dei pur preparandomi a quel momento da tutta la vita. Non avevo mai davvero considerato alcuna alternativa, sapevo che la nonna voleva questo per me ed ero sempre stata convinta di volerlo io stessa, solo che… ora che il momento era arrivato, mi ero scoperta indecisa e insicura.
E c’era lui. Lui che sembrava così vicino e così distante al contempo.
Raramente vedevo sollevarsi la malinconia che gli velava lo sguardo, ma quando accadeva era come se il mondo stesso diventasse più brillante, come se il mio cuore si facesse immediatamente più leggero. Avrei voluto sapere il suo nome, ma non ero nella posizione di fare una simile domanda, non ancora.
Troppi pensieri affollavano la mia mente, troppe riflessioni senza fine. E il silenzio della biblioteca… mi assordava.
Finii in fretta di riporre i manoscritti e i sutra, lasciando per ultimo quello del cuore. Il fiore che lui aveva svelato si era conservato perfettamente tra le sue pagine; lo sfiorai dapprima con la punta delle dita, poi lo sollevai aspettando quasi di avvertirne ancora il profumo.
Così leggero da essere quasi privo di consistenza, eppure bello in modo inenarrabile… prima ancora di rendermene conto ne sfiorai i petali con un bacio.
Aprii gli occhi all’improvviso (quando li avevo chiusi?) e riposi il fiore al suo posto, intimamente turbata dall’aver completamente perso il controllo dei miei pensieri. Non era mai accaduto prima, non così.
Sentivo il bisogno di uscire, forse l’aria fredda del tardo pomeriggio avrebbe calmato il mio spirito, forse anche la musica l’avrebbe fatto.
Presi con attenzione lo shamisen dal suo ripiano e uscii.
Avrei meditato lasciando che la mia consapevolezza fluisse con le note dello strumento, il giardino di pietra sarebbe stato il luogo perfetto dove ricercare l’armonia.
Ormai avrei dovuto saperlo. Come se nel desiderare l’aria limpida e fredda evocassi la sua immagine… lui era nel giardino, al riparo dalla neve, sotto la tettoia.
Sembrava intento a scrivere qualcosa, probabilmente dei versi a giudicare dall’espressione assorta ma distesa  del suo viso. Lo osservai senza lasciare il portico, temevo di disturbarlo e… volevo continuare a guardarlo, solo per un altro momento: la mano teneva il pennello con la stessa aggraziata sicurezza con cui l’avevo visto maneggiare le armi, era evidente che avesse grande familiarità anche con l’arte della calligrafia.
“Per lui è naturale”. Non ne ero affatto sorpresa, mi domandai se avrei dovuto esserlo.
Ad un tratto il pennello smise di scorrere. Le parole sembravano sfuggirgli. Soltanto allora percorsi il sentiero che attraversava il giardino lentamente, andando a sedere a rispettosa distanza dal bushi. Non volevo interrompere le sue riflessioni, ma aiutarlo; forse la musica avrebbe richiamato alla sua mente le giuste armonie.
Non dicemmo nulla, il nostro fu un saluto silenzioso fatto più di sguardi che di cenni. Presi tra le mani lo shamisen, forse avrei dovuto trovare le mie dita troppo fredde per suonare, ma non fu così: il freddo intorno a noi era un manto e non una bufera. Iniziai a suonare quando lui sorrise.
Una dopo l’altra, le note lasciarono il mio cuore lungo le corde dello strumento, riempiendo l’aria intorno a noi come non avevano mai fatto prima.
La nonna diceva che gli Dei mi avevano concesso molti doni, tra i quali la musica, ma… sapevo di non aver mai suonato nulla di nemmeno lontanamente simile, non avevo mai messo così tanto di me stessa in una melodia.
Il bushi mi osservò per alcuni istanti, quindi chiuse gli occhi lasciando che le note lo trasportassero. Ne fui lieta; ero felice che apprezzasse a tal punto ciò che stavo suonando e poi… sapevo che non avrei potuto reggere ancora a lungo il suo sguardo.
Quando le note si spensero e l’eco delle ultime scomparve nell’aria fredda, mi resi conto che aveva terminato di scrivere: avevo avuto ragione, erano indubbiamente versi.
Ripiegò la  pergamena e mi sorrise di nuovo, la sua voce profonda come i rintocchi di un’arpa, “Grazie, la tua musica ha guidato i miei pensieri”. Lo ringraziai con un lieve inchino, “Trovi strano che un guerriero scriva versi?”, mi osservò con attenzione, sembrava che cercasse la risposta alla sua domanda oltre le parole.
“L’arte è un linguaggio e un cammino verso l’elevazione. Le parole, le note, i gesti… sono passi dello spirito lungo questo cammino. Questo è ciò che io credo mio signore, quindi no, non trovo affatto strano che componiate, invero mi avrebbe forse stupita il contrario”, apprezzò quello che udì nella mia voce o forse quello che lesse nei miei occhi perché sorrise nuovamente, e io con lui.
Con gesti lenti e precisi ripose il necessario per scrivere ed estrasse un involto di seta da sotto l’haori, rivelando un flauto di betulla, candido come la neve.
“Suona con me”, avevo amato suonare per lui, ma quella gioia quasi scompariva paragonata a quella che provai a suonare con lui.
Il flauto circondava le mie note, me, in un abbraccio infinito e potente, talvolta prendendomi come per mano lungo inesplorati sentieri, talvolta stringendomi come non dovesse mai più lasciarmi.
Oltre il riparo della tettoia la neve scendeva copiosa, un impalpabile manto bianco a lasciare il mondo fuori, lontano da un momento che sarebbe stato soltanto nostro per sempre, mio e dell’uomo che mi stava rubando il cuore senza che potessi oppormi in alcun modo.

Alessia Bartolacelli:
Scena 4 - Una presentazione

“Kagura”, la nonna attese che sollevassi il viso da Tessaiga per essere certa di avere tutta la mia attenzione, “Si Oba-sama?”.
“Non si può imprigionare a lungo il vento in una giara o si romperà”, mi stava chiedendo di parlare con lei, di confidarle cosa si agitasse nel profondo del mio animo, temeva che soffrissi. Non avrei saputo nemmeno come accennare a… a cosa poi?
Annuii e la ringraziai con lo sguardo, le ero immensamente riconoscente, ma non potevo parlarle di qualcosa che nemmeno io sapevo come definire, come potevo essere certa che fosse amore? Dello straniero non sapevo nemmeno il nome e… e non aveva alcuna importanza, dubitavo fortemente di essere presente nei suoi pensieri e… la nonna non poteva aiutarmi a lenire questo dolore, nessuno poteva.
“Vi sono giare più resistenti di altre Oba-sama”, la nonna annuì e tacque osservandomi riprendere a lucidare la lama della katana.
“Oggi Higurashi-san è tornata a pregare per la sua famiglia. Vogliano gli Dei darle conforto nel suo dolore. Tu cosa ne pensi nipote?”, una prova? Come… non poteva avere davvero…
Feci molta attenzione a non lasciare trasparire nulla nella mia espressione e a mantenere il tono neutro, “Credo che l’inverno le ricordi la prematura scomparsa dei genitori. Le nostre preghiere possano unirsi alle sue e raggiungerli”, lei proseguì annuendo, “Sembrano tutti molto incuriositi dal nostro misterioso ospite. Pensa che persino la giovane Oharu ne sembra assai colpita”.
Dovetti ricordare a me stessa di non alterare nemmeno il ritmo del respiro, ora avevo la certezza che la nonna mi stesse mettendo alla prova, “Davvero? E’ comprensibile vista la sua giovane età”.
Un errore, “Lo credi? Eppure non ha visto soltanto il tuo primo inverno”, lentamente rinfoderai la katana sacra senza sollevare lo sguardo, “Io… per me è diverso Oba-sama”.
Fu la sua mano a sollevarmi il viso, sfiorandomi il mento affinché non potessi lasciare i suoi occhi, non vidi disappunto nel suo sguardo, soltanto affetto e preoccupazione, “Davvero lo è Kagura?”.
Non avrei saputo rispondere e lei lo sapeva. Mi accarezzò il viso e sorrise, prima di riprendere a parlare come se non avesse appena svelato il segreto del mio cuore, “La prima volta che vidi i tuoi occhi seppi di aver appena ricevuto il segno più importante di tutta la mia vita”.
Lo sapevo, me l’aveva ripetuto molte volte. Non avevo mai incontrato nessuno che avesse gli occhi d’acqua, mentre dei miei genitori non sapevo nulla, le mie origini un mistero conosciuto soltanto dagli Dei.
Mi abbracciò senza aggiungere altro, non ce n’era bisogno. Quindi mi lasciò nella sala dei venti, in compagnia dei miei pensieri.
Riposta Tessaiga, aprii il sutra del cuore ad osservare il tesoro che sapevo esattamente dove cercare. Dovevo ancora dirimere molti dubbi, ma qualcosa non sarebbe mai cambiato: il mio nome innanzitutto, la nonna mi aveva chiamata Kagura, fiore d’inverno, perché mi aveva trovata ancora in fasce davanti alla porta del tempio all’inizio della stagione delle nevi. Nell’insolito colore dei miei occhi vide un segno, ‘il’ segno, e mi adottò senza esitazione.
Nel nome la nonna era convinta stesse un frammento del destino di ognuno di noi. Io ero nata d’inverno, cresciuta all’ombra delle montagne dove la neve giunge assai presto e se ne và altrettanto tardi, ma… se davvero ero un fiore, potevo dire di essere sbocciata?
Agli occhi della mente rividi la mano del samurai scostare la neve con delicatezza, seguii di nuovo i suoi movimenti mentre liberava il fiore bianco da quel gelido abbraccio. Un fiore che senza la sua mano sarebbe rimasto imprigionato fino alla fine della sua esistenza.
Rabbrividii per la forza di quel pensiero a cui temevo di abbandonarmi, ma che non potevo lasciare.
Era la prima volta che lo cercavo, la prima volta che permettevo a me stessa di farlo. Tra le mani stringevo il sutra del cuore come fosse una sorta di scudo, mi rimproverai per un atteggiamento tanto immaturo da parte mia: se non mi fossi calmata immediatamente, avrei finito per comportarmi da sciocca e fare qualcosa di sconveniente o peggio, irrispettoso. Ed era l’ultima cosa che volessi.
Prima di bussare presi un lungo e profondo respiro, il controllo di me stessa era qualcosa che non mi era mai mancato, dovevo solo concentrarmi e…
“Avanti”.
Mi era mancata la sua voce.
Aprii la porta, ma non entrai: se fosse stato impegnato avremmo parlato in un’altra occasione.
“Perdonate mio signore, vorrei parlarvi se me lo permettete. Posso tornare in un altro momento se preferite”, non riuscii a non guardarlo in viso, forse non era consono ai rispettivi ruoli, ma i suoi occhi… sentivo la mancanza tanto del suo sguardo quanto della sua voce.
Non sembrava irritato, anzi, mi sorrise, “Prego, entra pure”.
Richiusi la porta alle mie spalle e volsi di nuovo lo sguardo su lui: gli abiti bianchi che portava sempre erano di fattura splendida, ma non sarebbero mai parsi altrettanto magnifici indossati da chiunque altro. “Siedi con me, stavo per bere del thè. Ne vuoi?”, feci come suggeriva e sedetti di fronte a lui, al tavolo dove erano già disposti gli utensili per la cerimonia.
Gli versai la bevanda e notai, ancora una volta senza alcuna sorpresa, che il bushi conosceva il rito alla perfezione. Il mondo esisteva ancora, ma era altrove, niente altro aveva importanza.
“Mi fa piacere che tu sia qui, grazie per aver bevuto con me”, sorrise e lo ricambiai con un cenno prima di rispondere, “Sono io a dovervi ringraziare mio signore. Volevo parlarvi a proposito di ciò che avete detto mentre eravamo alla cascata dei petali bianchi”. Annuì e si fece ancora più attento, ma la sua postura restò rilassata, gli occhi fissi nei miei.
“Volevo ringraziarvi del vostro consiglio. L’ho seguito e in questi giorni ho riflettuto a lungo sul suo significato. Le vostre parole sono state molto preziose per me”, aprii lentamente il sutra, lasciando gli occhi dell’uomo soltanto per prendere il piccolo fiore dalle pagine del testo.
“Vi prego di accettarlo insieme alla mia riconoscenza”, gli porsi il fiore e nel prenderlo sfiorò le mie dita per un istante, e poi per un altro ancora. La sua mano era fredda, ma la rispettosa dolcezza di quel gesto mi colpì diritta al cuore.
“Il mio nome è Kagura”, lo dissi che le nostre dita ancora si sfioravano, lui sorrise di nuovo e prima di ritirare la mano rispose alla domanda che non gli avevo fatto a parole, “Il mio nome è Yato Minamoto. Quando divenni un bushi, il mio sensei mi diede il nome Kagematsu. Tu, Kagura, puoi chiamarmi come preferisci”.
Il mio nome pronunciato dalla sua voce mi diede un brivido inaspettato.
“Kagematsu è un nome di potere, mia nonna ritiene che il nome racchiuda il destino”, osservò per alcuni istanti il piccolo fiore che gli avevo dato, assorto e improvvisamente malinconico, quindi sollevò nuovamente lo sguardo a cercare il mio, “E tu cosa credi Kagura?”.
Drago di ghiaccio. Un nome potente come pochi altri, ma che suonava terribilmente pesante. Sarebbe stato troppo per chiunque, ma non per lui, non per Yato. Di questo mi scoprii certa oltre ragione.
“Io credo che il destino stia nelle scelte che compiamo, ciò che siamo sta nei nostri pensieri e nelle nostre azioni, il nome ha il potere che noi stessi gli diamo. Kagematsu è un nome meraviglioso e pesante al contempo. Se me lo permettete, sarete Yato per me”.
Mi accorsi troppo tardi del terribile errore che avevo fatto. Una simile sfrontatezza da parte mia era imperdonabile! Non avevo alcun diritto di chiamarlo con il suo nome di battesimo senza alcun titolo!
Prima che potessi scusarmi per questo, lui sorrise di nuovo come se la malinconia si fosse sollevata dai suoi occhi e mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, “Grazie Kagura”.

Alessia Bartolacelli:
Scena 5 - Un segreto rivelato


“Perdonate Sachiko-san. Kagura, è successo qualcosa alla cascata. E’ ghiacciata all’improvviso in pochi istanti”. Non si era tolto le scarpe e nemmeno il mantello di pelliccia, anche soltanto da quei particolari era evidente l’urgenza del problema.
Guardai la nonna e vidi sul suo viso un’ombra che riconobbi: era l’antica paura della minaccia, temeva fosse un segno nefasto legato alla tensione che avvertiva nel sigillo del demone Sesshoumaru. Il motivo per cui ci trovavamo riunite tutte a pregare nella sala dei venti.
Yato si era fatto annunciare in fretta, nei suoi occhi lessi la stessa tensione che probabilmente c’era nei miei.
“Kagura, prendi il necessario. Sarai tu ad operare l’esorcismo”, annuii alla richiesta della prima sacerdotessa e mi alzai immediatamente, non c’era tempo da perdere.
“E Kagura… fa attenzione”, la voce vibrava di preoccupazione, avrei voluto rassicurarla, ma potevo soltanto sperare di essere all’altezza del compito. Stavo per replicare quando Yato mi precedette, “Andrò con lei”, lo disse come se fosse una certezza ovvia: nonostante nulla lo obbligasse a mettere in gioco sé stesso, Yato sarebbe venuto con me.
A sottolineare la sua decisione slacciò il mantello e lo lasciò su uno sgabello nel corridoio appena fuori dalla sala. Sarebbe stato un intralcio per i suoi movimenti, in caso di battaglia. Trassi esempio e risolutezza dal suo coraggio, “Farò ciò che è necessario al meglio delle mie capacità, non temete”.
Mi inchinai velocemente e lasciai la sala seguita dappresso dal bushi. Non sapevo dire quanto la sua presenza fosse rassicurante per me, era come se la paura con la quale avevo imparato a convivere, la paura di Sesshoumaru, stesse inesorabilmente perdendo presa sul mio spirito, come se la sola vicinanza di Yato bastasse a disperderne l’oscurità.
Presi la sacca con gli incensi e il necessario per accenderli, le boccette degli oli e dei sali sacri, e infine la sopraveste cerimoniale. Per ultimo sistemai nell’obi un lungo pugnale simile al tanto, l’unica arma nel cui uso venivano addestrate le sacerdotesse. Non era molto se paragonato alle armi di Yato, e ancor meno se paragonato alle sue capacità guerriere, ma se davvero fosse stato necessario combattere, per quanto indegna di battermi al suo fianco, non mi sarei tirata indietro.
Uscendo dal tempio, nell’aria fredda del pomeriggio, stavo per ringraziarlo per essersi offerto di accompagnarmi quando vidi sotto uno dei portici la padrona dell’onsen, Satoko Higurashi. Dalla sua espressione spaventata dedussi che sapeva del problema, dagli abiti e da come guardava Yato capii che lo sapeva perché c’era anche lei, insieme a lui alla cascata.
Mi vergognai immediatamente della meschinità dei miei pensieri in un momento simile. Strinsi appena più forte la tracolla di pelle della sacca e accelerai il passo; risposi al saluto della donna con un cenno quando le passai accanto, ma non riuscii a trovare la voce, e nemmeno lungo il tragitto verso la nostra meta.
Un affannoso respiro dopo l’altro cercai soltanto di concentrarmi sul mio compito e ignorare le sorde sferzate di dolore che mi stringevano il cuore.
Man mano che ci avvicinavamo alla cascata, la temperatura dell’aria si faceva sempre più fredda, innaturalmente rigida, la neve aveva smesso di cadere per il gelo e quella a terra scricchiolava, ghiacciata, sotto i calzari.
Non avrei mai potuto compiere un dovere sacro come un esorcismo se il mio cuore non fosse stato purificato dai cattivi pensieri. Non avevo più molto tempo per riuscirvi, ancora poco e saremmo arrivati.
Yato era un samurai, un uomo gentile e affascinante che indubbiamente conosceva molto del mondo, in lui sentivo una forza che non avevo mai avvertito prima, era… era troppo. Troppo per me.
Non sarei mai stata alla sua altezza. Non ero affascinante come Higurashi-san, e neppure spontanea come Oharu. Non avevo alcun diritto di provare risentimento nei loro confronti, mentre il dolore che sentivo per questa consapevolezza avrei dovuto imparare a gestirlo.
Erano brave persone che meritavano di essere felici, Higurashi, Oharu… e Yato era…
Yato era nel mio cuore, ne sarebbe stato in eterno il custode pur senza saperlo mai.
Io invece avevo un compito. La nonna e la gente del villaggio avevano fiducia in me, non avrei deluso loro… e nemmeno Yato.
Scostai i capelli dal viso e presi un lungo respiro. Ero consapevole dei miei limiti e pronta alla prova. Di fronte a noi l’ultima svolta del sentiero, oltre la macchia di alberi avremmo visto il laghetto e la cascata.
Il ghiaccio aveva oramai preso possesso delle acque, potevo vederlo avanzare a occhio nudo. Una volontà maligna aveva piegato la sacralità della natura con il solo intento di strangolare la vita in essa. Strinsi le mani a pugno, mentre un’ira fredda si faceva strada nella mia mente.
Accanto a me, Yato controllò che la katana fosse libera facendola scorrere nel fodero per un paio di dita, sembrava teso quanto me e questo era inconsueto: erano davvero poche le persone in grado di avere una simile percezione delle auree, come futura sacerdotessa ero stata addestrata a questo, ma non sapevo che anche ai samurai venissero impartiti insegnamenti simili.
Eppure non credevo fosse legato al suo addestramento. Non sapevo spiegarmene il motivo, ma ero convinta che una simile dote in lui fosse innata.
Focalizzai ira e concentrazione sul compito che mi aspettava: disposi il necessario di fronte a me con movimenti precisi, ignorando l’ostilità nella presenza malvagia che infestava la cascata. Amavo quel luogo e non avrei lasciato che venisse strangolato dal male.
Mi inginocchiai e iniziai le preghiere d’invocazione. Immediatamente il gelo del ghiaccio innaturale cercò di mordermi dolorosamente, voleva farmi desistere, ma non ci sarebbe riuscito.
La solida presenza di Yato, accanto a me, mi dava tutta la sicurezza di cui potessi avere bisogno.
Il rito durò almeno un’ora, ma alla fine la presenza malvagia cedette e  abbandonò la presa. L’acqua tornò a scorrere nel laghetto nuovamente libero e io trassi un profondo sospiro di sollievo.
“Se n’è andato”, annuii, “Grazie Yato”. Sedette accanto a me, visibilmente più calmo, ma con uno sguardo interrogativo negli occhi, “Non ho fatto nulla. Sei stata tu ad eseguire il rito, ed è stata la tua forza spirituale a liberare la cascata”.
“Davvero? Eppure se non ve ne foste accorto e non foste venuto a chiamarmi, l’acqua sarebbe ghiacciata completamente e…”, restai in silenzio alcuni istanti, immergendo la mano nell’acqua a tranquillizzare i piccoli pesci koi, “e loro sarebbero morti. Come  potete non vedere l’importanza del vostro aiuto?”. Per un momento mi parve sorpreso, ma fu solo un istante e forse un inganno della luce e della tensione del rituale, tuttavia… amai quell’espressione e  ancor di più il sorriso che la seguì.
Dopo lunghi istanti di piacevole silenzio, il suo sguardo prese a vagare sulla superficie dell’acqua, senza essere però davvero lì, “Kagura, il gelo si sta facendo più intenso”. La malinconia che talvolta gli velava lo sguardo si fece molto più profonda, il mio cuore soffriva per lui e avrei dato qualsiasi cosa per potergli restituire il sorriso, “Il freddo di cui parlate… è intorno a noi, o nei vostri ricordi?”.
Sollevò gli occhi nei miei, vi lessi sorpresa, fiducia e il riflesso di una decisione molto importante che aveva appena preso.
“Se lo fosse… vorresti ascoltare?”, “Si”, era talmente vero che non avrei mai saputo spiegargli quanto.
“Io non ho mai incontrato nessun avversario alla mia altezza”, non c’era boria alcuna nelle sue parole, esprimeva una semplice verità e non dubitai un istante di ciò che diceva.
“Eppure non ne ho avuto il rispetto. Nessuno è mai stato in grado di battermi, ma il rispetto per questo non è venuto da nessuno se non dal mio sensei”, non gli misi fretta né lo interruppi, prestando la massima attenzione alle sue parole, “Questo perché… Kagura”, il suo sguardo affondò nel mio con rinnovata intensità e… lo vidi lentamente cambiare, l’ossidiana che tanto mi affascinava mutò il suo colore nel riflesso argentino del ghiaccio. L’aria si fece più fredda mentre sul suo viso apparivano segni di un blu profondo, tatuaggi che scorrevano lungo il collo come fossero fatti d’acqua.
“Kagura… io non sono un essere umano, non completamente”, la sua voce non era cambiata, era la stessa come anche il suo sguardo. Non avrei potuto lasciare i suoi occhi o il suo viso nemmeno se lo avessi desiderato, e di certo non lo volevo… più ancora che da quei segni così puri ed eleganti, più ancora che dal colore dei suoi occhi, era la fiducia sconvolgente nel suo sguardo a farmi sentire importante come mai prima di allora, ne ero affascinata ogni istante di più.
“Mio padre è… era un oni. Un demone del ghiaccio. Mia madre non… non lo accolse di certo, tuttavia… mi allevò comunque, donandomi ogni cosa in suo potere. E’ stata per me la migliore delle madri nonostante… ciò che sono”, avrei voluto piangere per tutta la sua tristezza, versare io le lacrime che lui non avrebbe potuto mostrare, mi trattenni soltanto perché il racconto non era terminato.
“Quando seppi la verità e fui abbastanza cresciuto, cercai il demone che mi aveva generato, lo sfidai e lo uccisi. La lotta fu… difficile, ma vinsi, quello come tutti gli scontri in seguito. Il mio sensei mi diede nome Kagematsu per rispetto delle mie capacità, ma fu il solo. Per tutti gli altri sono soltanto un mezzo demone graziato del suo sangue impuro, non un vero guerriero, qualunque fosse il risultato sarebbe sempre stato colpa dell’eredità di un simile padre”.
Più ancora dell’amarezza, fu lo scoramento nel suo tono a colpirmi: da qualche parte nel suo animo, Yato iniziava a credere che quelle voci avessero ragione. Qualcosa di semplicemente impossibile.
“No”, non sapevo se potevo permettermi tanto, ma avrei fatto qualsiasi cosa per vincere la malinconica solitudine che lo circondava. Allungai una mano verso il suo braccio, ma la fermai a mezz’aria, non gli avrei imposto una cosa che…
Per un istante interminabile cessai di respirare, la sua mano raggiunse la mia e la strinse con forza e delicatezza insieme, la pelle era fredda ma non in modo spiacevole, era un freddo puro come la neve che aveva ripreso a cadere dal cielo.
“Questo è ciò che siete, né più né meno, di certo non può essere una colpa Yato. L’identità dei propri genitori non impedisce a un uomo di compiere le proprie scelte, non è una simile eredità a guidare i nostri passi e… non può esserci nessuna colpa nel nascere. Io… sono infinitamente onorata di avervi conosciuto e ringrazio gli Dei per avervi condotto qui”. Forse avevo detto troppo, forse mi ero abbandonata ai sentimenti in modo inappropriato, forse non avevo alcun diritto di parlargli in questo modo, ma… strinse appena più la mia mano e il suo sguardo tornò a tingersi di ossidiana, mentre i segni blu svanirono lentamente.
La sua mano si fece un po’ più calda e un quieto sorriso tornò a illuminargli il volto, “Ti ringrazio Kagura, per ognuna delle tue parole”.
Restammo sospesi in quel momento perfetto per un po’ ancora, prima di tornare al villaggio.

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