Autore Topic: [KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.  (Letto 7124 volte)

Credo che quasi tutti ormai conoscano il mio hack di Kagematsu, KaGaymatsu, in cui un gruppo di uomini imprigionati dai loro doveri e dal loro onore arrivano a sedurre un ronin straniero con lo scopo finale di essere liberati da questa minaccia.


Breve intro di com'è il nostro luogo di frontiera (al Castello-Prigione):

Vediamo un Palazzo feudale enorme a ridosso di una montagna di pietra.
Il castello è maledetto.
Tutti gli abitanti della regione lo sanno, per cui nessun abitante dei villaggi vicini osa avvicinarsi.
All'interno vive un tremendo Oni.
Nessuno, tuttavia, sa la terribile verità.
La regione stessa è maledetta, e l'Oni ha impossessato il corpo del Daimyo. Questa maledizione continua di generazione in generazione.
Una stirpe di sangue maledetta.

Per proteggere la regione da questo terribile spirito vive una piccola legione di uomini asserviti al demone.
I ricchi proprietari terrieri, e i mercanti sacrificano uno dei loro figli maschi per tenere placata la rabbia del demone. Questi figli marchiati e maledetti, rappresentano la legione asservita.

Uomini marchiati a sangue da un bonzo, resi schiavi di un palazzo vuoto da tenere vivo e attivo.
L'Oni vuole che tutto viva attorno a lui.
Un'immensa menzogna.
Un vita di eterna prigionia.
Eppure soltanto loro riescono a tenere calmo l'Oni.
Nessuno deve sapere di questo segreto.

Nessuno.


In questa splendida cornice, si muovono questi personaggi:

Renji
Giocatore: Davide Falzani
Età tra i 20 e i 30 anni. E' il cuoco del castello.
Ha lunghi capelli neri e lisci e un corpo alto ed affusolato, elegante. Ha una bruciatura profonda che va dal suo occhio destro alla labbra.
Indossa sempre un kimono viola pastello.
Porta all'orecchio un orecchino di conchiglia molto vistoso che apparteneva a sua madre.


Kaito
Giocatore: Stefano Burchi
Età attorno ai 25 anni.
E' un abile samurai, dal fisico agile e slanciato, forte, nervoso.
Porta la pettinatura tradizionale.
Indossa un kimono nero ricamato in oro.
Ha un comportamento schietto educato e nobile.
Porta al fianco sinistro il suo Daisho, e al destro il Daisho del suo amante perduto.


Watanuki
Giocatore: Talisa Tavella
Età tra i 20 e i 25 anni.
E' il bibliotecario del palazzo.
Porta i lunghi capelli neri acconciati in una lunga treccia, ma sulle tempie cominciano a vedersi i primi fili grigi, argentati.
Ha uno sgurado sfuggente, .come se temesse di restare ancorato a ciò che vede.
Indossa un kimono grigio con ricami verdi.
Ha una figlia segreta che vive in un villaggio vicino, porta con se un libro delle maledizioni.



In questo scenario è arrivato il mio Ronin.

Co-Creatrice di DILEMMA. Amante del GWEP. Non mettetemi in difficoltà con ambientazioni storiche. Il mio amore per Kagematsu/KaGaymatsu tocca le stelle.

Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #1 il: 2013-03-12 10:32:16 »
Ora procedo ad inserire dei brani che sono stati scritti da uno dei miei giocatori, Stefano Burchi.
Il suo personaggio è Kaito, e li vado a inserire nel forum come memoria storica, perchè non vadano perduti e perchè quando le giocate sono così belle e profonde meritano di essere "messe in luce".

Non sono AP, sono brevi romanzi di fiction con delle premesse di gioco.

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Premessa
Prima di venire sacrificato dalla sua famiglia al servizio dell'Oni, Kaito, in giovane età, serviva con altri samurai presso un'altra fortezza e lì, per una situazione non ancora chiarita in fiction, ha perso quello che riteneva essere il suo vero e unico amore. Di quei giorni gli restano soltano un daisho che non può usare (appartenuto all'amato scomparso) e molti ricordi che col tempo pian piano sbiadiscono lasciando Kaito solo con se stesso ed i suoi haiku, che tiene stretti come "ritratti" emotivi che gli permettono di "salvare" dall'avanzare impietoso del tempo i contorni precisi delle sensazioni che ha provato in quei giorni lontani e che prova nei giorni presenti.

Prima Scena

Alla ricerca di un segreto rivelato, il fallimento col primo tiro mi ha fatto tirare anche “pregare e implorare” e, come se non bastasse, “mostrare disprezzo per kagematsu”, facendo i miei tre 6 che hanno portato la minaccia in scena

Kaito si trovava su una torre, una delle più alte del palazzo, inginocchiato su un cuscino, con davanti a sé il necessario per scrivere, in contemplazione del mare e dell'orizzonte lontano.
L'aria proveniente dal mare era forte, ventosa, carica di un odore salmastro che pizzicava le narici.
Il ronin arrivò silenzioso, cercando di non disturbare il momento di contemplazione dell'altro samurai, memore di cosa era successo nel giardino col lago e i ciliegi in fiore pochi giorni prima.
Facendo un giro lungo e con passi controllati, il ronin infine attirò l'attenzione di Kaito, che vedendolo si riprese dalla riflessione nella quale era profondamente assorto. il Bushi del castello sorrise e nel vederlo percepì provenire dall’altro uomo un profumo dolce di agrumi che lo riportò prepotentemente indietro con la memoria ad un luogo, un tempo ed una persona che non erano più. Il samurai spostò il proprio daisho sul suo fianco destro, in segno di amicizia e non belligeranza, quindi invitò il ronin a contemplare con lui il mare, accomodandosi sul cuscino, grande abbastanza per entrambi. Lasciando correre i propri pensieri sulla traccia del dolce profumo portato lassù dal ronin, Kaito, iniziò a conversare.

“E’ profumo di arance quello che porti addosso?”
“Non lo so... cosa sono le arance?”

Kaito rimase sorpreso da quella domanda così inaspettata e peculiare e cercò di spiegare al ronin cosa fosse quel frutto agro, ma dolce al tempo stesso e come questa sua caratteristica gli riportasse alla memoria una persona a lui molto cara che da tempo non era più in vita.

“Non trovi strano come basti una cosa così semplice per riportare alla mente così tanti ricordi?”
“No”, rispose il ronin, “Lo trovo anzi molto bello”.

Dopo qualche minuto di comune silenziosa contemplazione, Kaito decise di esprimere al ronin quanto sollievo gli desse la sua presenza nel castello. Ci stava pensando da quella sera in cui avevano condiviso un prezioso momento da soli nella stanza dei Kimono. Gli altri abitanti del castello condividevano la sua prigionia forzata, ma non potevano capire il suo conflitto interiore, come lui si sentisse così diviso tra l’onore, il dovere ed il suo desiderio di seguire le sue aspirazioni più profonde. Certo, questo particolare ronin si era dimostrato un samurai molto particolare, quanto ad osservanza dell’etichetta, ma la sua via non poteva prescindere dai principi del bushido e se anche non li applicava rigidamente, quanto meno doveva comprenderli come solo un samurai iniziato poteva fare.

“Mio padre è stato molto crudele con me.” Iniziò. “I kanji con cui si compone il mio nome sono quello dell’oceano e quello del leversi in volo”. Sospirò. “E da quando mi ha ordinato di prestare servizio qui,  il mio destino è vincolato a questo luogo, dove soltanto i miei pensieri possono levarsi in volo sul mare e correre via, verso l’orizzonte”. Kaito si voltò verso il ronin con un sorriso sincero sul viso, seppure offuscato da indistinte ombre di tristezza. “Mi dà molto sollievo la tua presenza qui, ronin. Gli altri non possono davvero capire come mi sento veramente, perché non sono samurai. Non comprendono le vie del dovere e dell’onore come noi”.

Su queste ultime parole lo sguardo di Kaito si fece molto intenso, cercando una conferma o un segno d’approvazione negli occhi del ronin accanto a lui. Questi, tuttavia, non rispose allo sguardo: i suoi occhi si soffermarono invece per qualche breve istante sul proprio daisho. Era vittima dell’usura del tempo e dell’incuria. Evidentemente il ronin non dedicava alle proprie lame il rispetto loro dovuto. Seguendo lo sguardo del ronin, Kaito notò questo particolare e per un istante il suo cuore smise come di battere in petto.

Il volto del samurai si rabbuiò: constatare quanta incuria e mancanza di rispetto quel ronin avesse per la sua stessa anima, la Katana, ed il suo proprio onore, il Wakizashi lo fece inorridire e lo riempì di incommensurabile sconforto. Kaito guardò per un istante i suoi fogli, mossi dal vento e il pennello con cui scriveva, fermo: un servo fedele, pronto ad essere usato quando l’ispirazione l’avrebbe permesso. Guardandoli una lacrima iniziò a scendere sulla sua guancia incontrollata e solitaria. Come una lama affilata fendeva la maschera di pacatezza dietro cui Kaito reprimeva e nascondeva tutta la sua frustrazione, il suo sconforto, la sua nostalgia per un tempo che non sarebbe più tornato e la sua infinita solitudine. Con voce dura, ma al contempo rotta da un pianto a lungo represso, Kaito rinchiuse in un haiku per il ronin il suo rimprovero:

“Saetta sicura nel sole:
d’acciao immortale brilla
l’anima del guerriero”

Su queste parole si fermò a guardarlo, con le lacrime che ormai scendevano libere e incontrollate. Il ronin fu come preso di sorpresa, probabilmente non aspettandosi una reazione tanto intensa.

“Cosa ho fatto Kaito? Non volevo ferirti... non capisco!”

Non capisco. Quelle due semplici parole furono per Kaito troppo e le lacrime facevano ormai solo da cornice ad una voce interrotta dai singhiozzi. “Come puoi non capire? Su questo si fonda tutta la nostra vita, la nostra esistenza... è la ragione per cui siamo qui, per cui questa prigione è il mio posto e perché da qui non posso andarmene. Come puoi non capire?”

Il ronin si innervosì, guardava Kaito senza capire il perché di quella reazione così esagerata, sinceramente preoccupato di non riuscire a capire come o perché l’avesse ferito. Altre incomprensioni gli erano già costate dei tristi fraintendimenti con gli altri due abitanti del castello che sembravano tenere in maniera particolare a lui e questo lo gettava nello sconforto. Non capiva e apparentemente proprio questa sua incapacità di comprendere stava causando così tanto dolore alle persone che con lui erano state in realtà così gentili.

Kaito riprese il controllo di sé e si alzò dal cuscino su cui entrambi gli uomini si erano accomodati. Senza riuscire a guardare in volto il ronin, ripose il suo pennello nella scatola e raccolse i suoi preziosi appunti. Freddo come raramente era stato col ronin, gli disse: “Non mi ero accorto di quanto distanti in realtà fossimo. E’ stato un mio errore pensare a te come a qualcuno capace di conforto e comprensione”.
Il samurai non aveva paura di usare come lame le parole. Feriva sapendo di ferire e non gli importava. Tanto era in quel momento il suo disprezzo per il ronin causato dal dolore che stava provando. Kaito sarebbe andato avanti, probabilmente avrebbe detto qualcosa di più, quanto bastava per uscire per sempre dalla vita dello straniero, ma improvvisamente una scossa tremenda lo colpì alla base del collo, dove il Bonzo aveva posto il sigillo che lo legava a doppio filo all’Oni del castello.
La scatola coi pennelli cadde a terra, il vento aumentò la sua intensità, iniziando a sferzare con forza sul viso dei due uomini. Tale fu la forza con cui aumentò che il grido di dolore di Kaito si perse nella corrente e solo il ronin lo sentì distintamente.
L’Oni stava richiamando al dovere il samurai, troppo a lungo si era assentato per dedicarsi alla contemplazione. Doveva ricordarsi che non era lì per se stesso, ma per l’Oni. La sua vita era del demone e soltanto per lui doveva prestare attenzione e servizio.
Sopraffatto dal dolore che lo accecava, Kaito cadde svenuto e non potè vedere le lacrime sugli occhi del ronin. Solo il vento le vedeva e le strappava via, freddo e indifferente, con raffiche dolorose.
Co-Creatrice di DILEMMA. Amante del GWEP. Non mettetemi in difficoltà con ambientazioni storiche. Il mio amore per Kagematsu/KaGaymatsu tocca le stelle.

Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #2 il: 2013-03-12 10:38:08 »
Seconda Sessione - Seconda Scena

Antefatto: Il ronin è stato trovato nel castello dal Bonzo. Questi, furioso, lo ha afferrato per i capelli e lo ha ferito con i suoi poteri, per poi scagliarlo fuori dalla finestra della torre nella quale si trovavano, fino a farlo rovinare nel fondo della rupe sulla quale il castello è costruito. Da quell’evento, per diversi giorni nessuno ha più avuto notizie dello straniero giunto al castello, ed alcuni hanno iniziato a pensare che se ne fosse infine andato. Solo Renji è stato testimone della violenza del Bonzo e non ne ha fatto parola con nessuno, per il timore che il Bonzo ha suscitato in lui

Alla ricerca di un segreto rivelato e di una presentazione, dadi permettendo.


Tutto il castello era in pieno fermento. Ogni uomo era impegnato nei preparativi per la festa della fertilità, molto cara all’Oni. Tutto il castello doveva apparire vivo, festoso, ricco e gioioso. Così voleva il demone.

Ognuno partecipava a quella corale messa in scena fingendo trasporto e genuino divertimento, ma in realtà, oltre il sottile velo dell’apparenza, là dove le luci delle lampade non rischiaravano perfettamente, si nascondevano tetre ombre di desolazione e sconforto; paura e rassegnazione.

Kaito era incaricato della guardia alla porta d’ingresso alla sala in cui si sarebbe svolta la parte principale della festa ed era grato per quel ruolo. Non avrebbe preso parte attiva ai festeggimenti, e questo non gli dispiaceva. Non era dell’umore giusto per partecipare ad un sontuoso banchetto, accompagnato da danzatori e musici impeccabili nella forma, ma piegati nell’animo e nella sostanza.
L’armatura tradizionale che avrebbe indossato, inoltre, era dotata di una maschera a viso intero che gli avrebbe evitato la spiacevole seccatura di vestire anche quella sera la sua faccia di circostanza, con il sorriso di felicità artificiale che l’Oni si aspettava da tutti.

Il bushi scendeva le scale con passo spedito, la sala sotterranea in cui erano custodite le preziose armature da cerimonia veniva aperta solo in rare occasioni e questa era una. Da giorni non vedeva più lo straniero e non aveva fatto altro che pensare a lui, a come si erano lasciati, a come era svenuto a causa del marchio che lo dominava. Avrebbe volentieri sacrificato anche uno dei suoi ricordi più cari, tra le poche cose realmente preziose che gli fossero rimaste, pur di avere l’occasione di rivedere il ronin e di scusarsi per la sua rudezza e deplorevole mancanza di controllo. Kaito capiva ora di aver commesso l’errore di affezionarsi dell’idea che aveva dello straniero e non di lui stesso per quello che realmente era.
Trovandosi di fronte alla pesante porta della sala d’armi, il suo volto si piegò per un istante nell’accenno di un sorriso. Contemplare la perfezione delle armature e delle armi custodite nel castello gli avrebbe recato sollievo, seppure temporaneo.

Entrando il freddo della stanza lo investì. Si trattava di una grande sala rettangolare, buia, dall’aria estremamente secca. Era pensata per conservare i preziosi oggetti in essa custoditi e raramente l’umidità vi si infiltrava.  Avanzando nel buio, per prendere la torcia agganciata alla parete che avrebbe usato per l’illuminazione, inciampò in qualcosa di grosso ed ingombrante che sembrava un sacco abbandonato a terra. Allertato e preoccupato, portò immediatamente la mano all’elsa della sua katana, piegandosi per controllare da vicino di cosa si trattasse.

Kaito sentì la pelle d’oca addosso quando realizzò di avere davanti a sé il ronin: mezzo nudo, moribondo, freddo e tremante, ricoperto di sangue. Per il bushi quella vista fu come sentirsi ricoprire il petto di frecce impietose..

“Cosa ti è successo...? Cosa ci fai qui!?” Esclamò a mezza voce Kaito.

Il ronin rispose con voce flebile e confusa: le sue parole erano incomprensibili per l’altro samurai.
Kaito non rimase a pensarci troppo a lungo. Si tolse il prezioso kimono che indossava, esponendo lo shitagi ed il fundoshi che aveva messo per essere pronto a vestire l’armatura e lo avvolse intorno al corpo del ronin, ignorando i suoi deboli tentativi di resistenza.

I pensieri di Kaito si accavvallavano caotici l’uno sull’altro. Non capiva come il ronin fosse potuto finire lì dentro, né come si potesse essere ridotto in quelle condizioni. Il senso di gestione dell’emergenza, tuttavia, prevalse: il samurai si guardò rapidamente alle spalle, verso la porta aperta e sussurrò al ronin: “Sei gelido... Vado a procurarti qualcosa di caldo e qualcosa per farti accomodare”
La protesta in risposta del ronin era così debole e fragile che nel cuore di Kaito si agirarono svariati sentimenti che in quel momento il samurai non aveva tempo di elaborare, ma che aveva già vissuto una volta, quando qualcun altro cui teneva era davanti a lui morente.

“N-non a-andare via...”
“Non preoccuparti” replicò gentile, ma deciso Kaito: “tornerò subito. Non ti abbandonerò, ma hai bisogno di cure”.

Ignorando ogni altro segno di protesta, Kaito uscì dalla stanza così com’era, vestito solo del proprio abbigliamento intimo, e si diresse spedito verso le cucine, sperando di non incrociare il cuoco o qualcuno dei suoi sottoposti. Una volta dentro, fece incetta di pezze pulite ed asciugamani, mise in un grande secchio dell’acqua bollente e si fermò davanti alla credenza delle spezie e delle erbe. Un forte senso di frustrazione s’impadronì di lui quando si rese conto che non sapeva quali erbe prendere o come dar sollievo allo straniero, al di là dell’acqua calda. Il suo percorso da bushi, il suo interesse per la poesia e tutti i suoi sogni e ricordi da recluso non servivano a nulla e lui era lì, solo, impotente, a realizzare che lo straniero sarebbe potuto morire da un momento all’altro e le ultime parole che si erano detti sarebbero rimaste colme di ansia e fretta. Una fine indegna di qualunque samurai, per non parlare di qualcuno che Kaito considerava un amico
Cercando di ingnorare le voci ed i sentimenti che gli riempivano la testa di rumore intollerabile, il samurai iniziò a passare nuovamente in rassegna tutte le credenze, nella speranza di trovare qualcosa che potesse essere di sollievo allo straniero, e finalmente trovò il tè. Ne rovesciò velocemente una moderata quantità in un piccolo contenitore, dentro al quale mise anche due piccole tazzine.
Appoggiò gli asciugamani sul secchio fece per andarsene quando si rese conto che un ragazzino, un inserviente, lo stava guardando dall’altra parte della cucina. Era immobile, con gli occhi sbarrati ed un evidente imbarazzo dipinto sul volto. Imbarazzo e confusione: aveva evidentemente riconosciuto il bushi, ma non si aspettava di vederlo mezzo nudo in cucina a rovistare tra le cose di Renji, il cuoco.
Una imprecazione morì tra i denti di Kaito, il quale si limitò a guardare con aria estremamente severa l’inserviente e gli sibilò un secco: “Tu non mi hai mai visto qui, chiaro?”, sicuro del fatto che la sua posizione nella gerarchia del castello avrebbe dato il peso della verità alla sua parola, e non a quella di un semplice sguattero di cucina.

Lanciato più velocemente possibile verso la stanza in cui aveva lasciato il ronin, Kaito lungo le scale fu fulminato dalla consapevolezza che aveva abbandonato il proprio daisho nella stanza delle armature, con lo straniero sofferente. La constatazione per lui fu un piccolo shock: da che aveva ricordo, nel castello non si era mai separato dalla sua anima (la katana) e dal suo onore (il wakizashi), se non in presenza dell’Oni o del Bonzo. Nonostante le parole piene di risentimento che gli aveva rivolto l’ultima volta che avevano discusso, evidentemente quell’uomo doveva avere smosso in lui qualcosa di più del senso di rispetto o amicizia. Questo solo pensiero turbava il bushi come un sasso lanciato nello stagno calmo: non aveva ora il tempo di comprendere quanto si sarebbero allargate le increspature sull’acqua e cosa avrebbero toccato.
Proseguendo nella sua corsa si rese conto anche che la sala delle armature non era il luogo adatto per prendersi cura dello straniero: portare umidità in quella stanza avrebbe potuto creare dei danni ai preziosi armamenti in essa contenuti e li avrebbe esposti inutilmente a chiunque si fosse recato laggiù a cercare Kaito. Il samurai s’impossessò quindi di una stanza lungo il percorso e dopo avervi lasciato ciò che si era procurato in cucina, andò a prendere il ronin.

Entrati nella stanza, Kaito fece accodmare come meglio poteva lo straniero sul tatami meno scomodo nella sala e cercò di bloccare la porta d’ingresso usando un piccolo armadio vuoto presente nella sala.

Velocemente rovesciò un po’ d’acqua calda nel contenitore in cui aveva messo le foglie di tè e le lasciò in infusione. Non cera alcuna ricerca della perfezione nei suoi gesti: solo fretta, frustrazione e preoccupazione. Kaito era teso, e non si curava di agire con il distacco, la freddezza e la perfezione che i suoi principi gli dettavano.

Con tutta la delicatezza di cui era capace, il samurai scostò il kimono dallo straniero e cercò di portare in evidenza le ferite e i grumi di sangue secco sulla sua pelle. Lentamente bagnò uno degli asciugamani con l’acqua calda ed iniziò a ripulire lo straniero, cercando al contempo di scaldarlo. Il ronin lo lasciava fare, con gli occhi socchiusi e tra i due per alcuni lunghi attimi ci fu solo silenzio, rotto dal rumore cristallino dell’acqua quando Kaito bagnava l’asciugamano.

Il samurai, infine, si fece coraggio, e parlò. “Non ti ho più visto. Temevo te ne fossi andato a causa di quello che ti ho detto. Mi dispiace...” S’interruppe per un breve istante, poi riprese, esitante: “Cosa ti ha ridotto così? Cosa ti è accaduto?”

Il ronin mosse la testa e le sue parole iniziarono lentamente ad avere un senso, non apparendo più come flebili e sconnessi lamenti.

“Kaito... T-tu credi c-che gli animali abbiano un'anima?”

Quella domanda soprese il bushi. Non se la aspettava. Decise comunque di assecondare il ronin e non gli rispose prima di aver riflettuto qualche istante, come se volesse soppesare le parole.

“Credo che i Kami si manifestino in ogni aspetto del creato, quindi sì. Credo che gli animali abbiano un'anima”, rispose infine.

Il ronin accennò quello che nel volto devastato dal dolore poteva leggersi come un accenno di sorriso, poi proseguì: “Bene... perché devo rivelarti una cosa. Mi dispiace di averti mentito, Kaito. Vi ho ingannati tutti. Ho cercato di essere come voi, ma non ci sono riuscito. Io non sono un ronin: sono un Kitsune, lo spirito di una volpe.”

Quella rivelazione colpì Kaito, ma il samurai non lo diede a vedere e non replicò. Il ronin iniziò lentamente a mostrare il suo vero aspetto: dalle spoglie mortali del vecchio che il samurai aveva conosciuto fino a quel momento, si alzava ora un giovane dai capelli rossicci ricoperto da una morbida peluria su dorso dal colore arancio scuro, tendente al marrone, con due grandi occhi di un color ambrato talmente chiaro da sembrare oro luccicante. Le sue mani avevano dita armoniose e lunghe, con terribili artigli affilati alle loro estremità. La bellezza di quell’essere lasciò il samurai senza fiato per alcuni brevi attimi che parverò trascorrere con la lentezza dell’eternità.

Esitante e pieno di ammirazione, Kaito sussurrò: ”Le... Le ferite non sono riuscite a deturpare o nascondere la tua bellezza” Con quelle parole una lacrima iniziò a scendere, lenta, sulla guancia del guerriero. Non c’era tristezza, rabbia o frustrazione. Non c’erano emozioni negative. C’erano solo tanta ammirazione, sollievo e qualcosa di indefinito, ma forte che teneva Kaito stretto per lo stomaco, fino a farlo stare male, ma che il samurai non riusciva a definire. Sorridendo commosso, continuò: “Davanti a me non vedo né una volpe, né un essere umano: vedo solo un'anima gentile. Splendida e gentile.”

Con delicatezza il ronin asciugò la lacrima di Kaito, facendo attenzione a non ferire l’uomo coi sui temibili artigli. Kaito non poteva dire se il Kitsune fosse solo incerto o forse a suo modo commosso, ma gli si scaldò profondamente il cuore quando capì che gli stava concedendo il privilegio di conoscere il suo vero nome,

“Nella foresta da cui provengo mi chiamano come colui che è stato concepito all'ombra di un pino, Kagematsu, nella vostra lingua.”

Solo in quel momento Kaito si rese conto che nella stanza, in effetti, aleggiava un sottile profumo di aghi di pino, lo stesso che aveva avvertito molte sere prima, quando con lo straniero aveva condiviso un momento di confidenza nella stanza dei kimono.

Kagematsu continuò: “Mi dispiace aver causato così tanto dolore a causa della mia incapacità di comprendervi. Ho provato ad essere come voi esseri umani, ma è difficile!” Sull'ultima parola Kaito percepì distintamente una nota di genuina frustrazione.

“Non scusarti, Kagematsu” lo interruppe Kaito. “Non ce n’è bisogno”.
“No, Kaito, c'è un'altra cosa che devo dirti.” Lo spirito della volte smise di parlare, distogliendo lo sguardo da Kaito. Con voce più grave riprese: “Io sono il figlio del Daimyo. La ragione per cui sono entrato qui con una falsa identità è che volevo capire cosa mi avrebbe aspettato alla morte di mio padre. Il Bonzo purtroppo mi ha scoperto e mi ha cacciato facendomi questo.”

La consapevolezza e il significato di quello che aveva sentito, investirono Kaito con la violenza di cavallo che carica il nemico nella battaglia. Nel breve scorrere di un attimo si sentì mancare la terra sotto i piedi ed il petto iniziò a fargli male, come se anche il suo cuore volesse gridare per la disperazione. Kaito guardava Kagematsu e per la prima volta da quando l’aveva conosciuto lo vedeva realmente per quello che era.

Improvvisamente Kaito si rivide anni prima, quando era ancora un ragazzino da poco diventato un vero bushi chinato sul corpo morente del suo amore, disperato e impotente, pregando con tutto se stesso i Kami di non lasciarlo solo coi suoi ricordi, di non strappargli via il suo cuore.
rivide se stesso mentre il Bonzo lo marchiava, sulla schiena, alla base del collo. Mentre fu costretto a giurare fedeltà all’Oni che diventò così il suo signore. Guardava Kagematsu con la dolorosa consapevolezza che non avrebbe potuto fare niente per lui. Kaito era un guerriero nel pieno delle proprie forze e nonostante questo non era in grado di fare qualcosa per Kagematsu. Tutto il suo coraggio non sarebbe servito a nulla. Il senso d’impotenza lo stava rodendo da dentro, come una tarma affamata decisa a consumare tutto il legno che la ospitava.

Le lacrime ormai scorrevano libere, la maschera del bushi rigoroso ed onorevole era in frantumi ai piedi del samurai, distrutta dalla prospettiva che anche quest’anima che per un attimo aveva sentito così vicina a sé gli sarebbe stata portata via.

“Io... Io... non posso fare nulla. Non posso salvarti. Io... sono impotente di fronte all'Oni”. Kaitò alzò gli occhi, cercando di incrociare lo sguardo del Kitsune. Era combattuto e pieno di tristezza, ma ancora non c’era traccia di rassegnazione. “Io non ho potere su di lui, nemmeno con tutta la mia forza di volontà potrei combatterlo.”

Kagematsu inclinò la testa e fissandolo coi suoi occhi luminosi e caldi sussurrò comprensivo: “Lo so... non preoccuparti. Lo so.”
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Mauro

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #3 il: 2013-03-12 11:37:31 »
Intanto Fan Mail a tutti, appena riesco leggo l'ultimo aggiornamento.

Giulia Cursi

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #4 il: 2013-03-12 11:59:45 »
Bello davvero, inoltre Kagematsu ha poche meccaniche è normale che la fiction le sovrasti. ^^

Deduco che i tiri siano andati bene nel secondo post.
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sebastian

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #5 il: 2013-03-12 12:09:29 »
Deduco che i tiri siano andati bene nel secondo post.

Sì, sono andanti bene. Il "dadi permettendo" all'inizio del secondo resoconto è ironico visto il fallimento della scena precedente :)
"I lost some time once. It’s always in the last place you look for it." ~ Delirium of the Endless

Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #6 il: 2013-03-12 13:09:27 »
Bellissimo!

Alessandro Piroddi (Hasimir)

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #7 il: 2013-03-12 13:17:20 »
Bello *_*

Mi manca tanto il nostro Kagematsu-Sesshomaru del Tempio ai Confini del Ghiaccio ç_ç

http://images2.fanpop.com/images/photos/3400000/sesshomaru-inuyasha-3407897-1024-768.jpg
www.unPlayableGames.TK ...where game ideas come to die

Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #8 il: 2013-03-12 14:50:40 »
Bello *_*

Mi manca tanto il nostro Kagematsu-Sesshomaru del Tempio ai Confini del Ghiaccio ç_ç

http://images2.fanpop.com/images/photos/3400000/sesshomaru-inuyasha-3407897-1024-768.jpg

Anche a me, Hasimir!!!
E quanto eravate stupendi tutti e quattro!!
<3

E' evidente che ci ho preso gusto a fare i mezzi animali dopo quella partita. Adoravo il lupo bianco, e nel vostro setting era praticamente perfetto.

Ma quanto belle sono le atmosfere del Giappone medievale????
Tutti dovrebbero giocare almeno una volta nella vita Kagematsu/KaGaymatsu.
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Giulia Cursi

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #9 il: 2013-03-12 14:54:26 »
Tutti dovrebbero giocare almeno una volta nella vita Kagematsu/KaGaymatsu.

Per questo ho "consigliato/costretto" Simone a giocare con te a GnoccoCON! XD
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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #10 il: 2013-03-12 14:58:45 »
Per questo ho "consigliato/costretto" Simone a giocare con te a GnoccoCON! XD

Per me è stato un onore ed un piacere avere Simone al mio tavolo.

Prima o poi mi piacerebbe giocarlo di nuovo anche con te, Giulia (non importa se come spasimante o come Ronin).
<3
Co-Creatrice di DILEMMA. Amante del GWEP. Non mettetemi in difficoltà con ambientazioni storiche. Il mio amore per Kagematsu/KaGaymatsu tocca le stelle.

Luca Maiorani

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #11 il: 2013-03-12 15:57:11 »

Tutti dovrebbero giocare almeno una volta nella vita Kagematsu/KaGaymatsu.

Voglio provarlo, è uno dei giochi che DEVO riuscire a giocare prima o poi. Kagematsu però. Non ho nulla contro KaGaymatsu, ci mancherebbe, ma non credo riuscirei a giocarci, sorry.  :-[

Giulia Cursi

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #12 il: 2013-03-12 15:58:02 »

Tutti dovrebbero giocare almeno una volta nella vita Kagematsu/KaGaymatsu.

Voglio provarlo, è uno dei giochi che DEVO riuscire a giocare prima o poi. Kagematsu però. Non ho nulla contro KaGaymatsu, ci mancherebbe, ma non credo riuscirei a giocarci, sorry.  :-[


Se ci giochi almeno una volta con me o Manu, vedrai che poi ti convinciamo a giocare la versione gay! XD
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Luca Maiorani

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Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #13 il: 2013-03-12 16:03:52 »

Se ci giochi almeno una volta con me o Manu, vedrai che poi ti convinciamo a giocare la versione gay! XD

E chi lo sa... dovrei sforzarmici molto per giocarci, mai dire mai.  :P
Comunque se un giorno di questi vi va di metter su un Kagematsu fatemi sapere, sia in hangouts che a qualche CON, se mai riuscirò a parteciparci.

Re:[KaGaymatsu] ll Castello che in realtà era una Prigione.
« Risposta #14 il: 2013-03-12 16:11:42 »
Luca, immagino perchè l'hack possa fari paura, ma ti assicuro che  io eGiulia siamo davvero brave a mattere ragazzi al tavolo a loro agio.

Vero, Ragazzi?
Mi rassicurate Luca?

(Comunque prova tranquillamente prima il vanilla. Appena propongo una nuova partita, cerco di ricordarmi e inserirti, se non lo faccio, magari tieni d'occhio G+, visto che io faccio partire lì tutte le mie partite.)
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