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Gli stereotipi sociali e come influenzano il nostro gioco
Claudia Cangini:
Non so come mai questa riflessione mi è venuta in mente proprio ora. Forse dipende dal fatto che sto giocando una serie di campagne di AiPS e iMdA fitte di sdilinquimenti sentimentali (e posso confermare che sono giochi OTTIMI per giocare questo genere di cose). Chissà.
In ogni caso la riflessione che volevo fare parte dal passato. Non so se da bambina ero un maschiaccio, per certo mi piacevano le Barbie e le pistole da Cowboy, i Lego e gli archi giocattolo. Ma all'epoca mi importava poco delle aspettative sociali nei miei confronti, quelle hanno cominciato a diventare più rilevanti nell'adolescenza.
Cut su tutti i miei sturbi adolescenziali sul ruolo sessuale e passiamo a quando ho cominciato a giocare di ruolo. Tardino rispetto a parecchia gente che posta qui, avevo una ventina d'anni i miei gusti in fatto di fiction cominciavano ad essere formati.
Ora, giocare significa raccontare storie. Si può trattare di intrattenimento superficiale ma può essere anche un atto molto personale e rivelatore. E' facile sentire l'ansia del giudizio altrui quando si produce fiction al tavolo.
A posteriori mi sono resa conto che, i primi tempi, io mi autocensuravo. Il mio dilemma nasceva dal fatto che, in realtà, io ho alcuni gusti che rientrano meravigliosamente nello stereotipo femminile. Nella fattispecie i giochi con molto crunch mi fanno scendere la catena, e faccio fatica a capirli, Inoltre ho una passione per le storie che parlano di relazioni e sentimenti con un particolare penchant per quelle piene di sdilinquimenti sentimentali e amori contrastati.
Insomma, proprio robe da donna.
A mia discolpa posso solo dire che mi trovavo a giocare in tavoli a grande maggioranza maschile e mi dispiaceva andare involontariamente a rafforzare certi luoghi comuni. Quindi, in pratica, giocavo col freno a mano tirato sulle melensaggini che mi venivano spontanee. Bisogna dire anche che, nell'evitare certi argomenti, ricevevo un aiutone dai sistemi di gioco che si usavano all'epoca: robe ottime per mazzuolare colboldi ma che non favorivano in nessun modo l'affrontare altri argomenti.
Comunque, poi sono successe due cose che mi hanno fatto cambiare atteggiamento:
1) Io sono cresciuta e, con l'età, è arrivata anche la voglia potente di fregarsene alla grande e giocare quello che mi andava. Se chi era al tavolo con me traeva qualche giudizio sulle esponenti del mio sesso in base a quanto ero impedita con i numeri e alle storie che mi piaceva affrontare, buon pro gli facesse e tanti saluti.
Probabilmente un buon incoraggiamento è venuto anche dal fatto che ho iniziato a giocare spesso con Michele, l'uomo più romantico del mondo, e uno che, in quanto a passione per le storie melense, può darmi le paste mattina, mezzogiorno e sera.
2) Ho iniziato a trovare una marea di sistemi con poco crunch che promuovevano e supportavano certe tematiche. Voglio dire, come cavolo si fa a non esplorare sentimenti e relazioni in certi giochi?
Morale della favola: eccomi qui adesso a giocare con gran soddisfazione le storie che mi piace giocare con i giochi che le supportano. Però è proprio triste che uno stereotipo ti venga a rompere le scatole sia quando ci rientri che quando tenti di uscirne!
A qualcun’altro è capitato mai qualcosa del genere? Le aspettative sul vostro ruolo sociale hanno mai influenzato il vostro gioco?
Mattia Bulgarelli:
Non credo di avere una testimonianza diretta in questo senso, ma sappi che che questo tuo pezzo entra nel mio cervello come in un macinapepe per uscire spolverizzato q.b. sul mio articolo per l'INCbook. ^_-
Claudia Cangini:
Bene, allora è servito a qualcosa! ^__^
Patrick:
pensandoci un attimo non credo di aver mai sofferto di questo problema, per via di come sono cresciuto: ho passato praticamente tutta la mia vita in alto adige (provincia notoriamente trilingue italiano/tedesco/ladino), entrambi i miei genitori erano italiani (non capivano un'acca di tedesco), a casa e con gli amici parlavo italiano, ma frequentavo le scuole tedesche. Per questo motivo tra i miei amici italiani ero "quello tedesco", e vice versa con i miei amici tedeschi ero "quello italiano". Ovviamente gli italiani sapevano l'italiano meglio di me, e i tedeschi il tedesco. A volte mi capitava di non capire una parola o una frase, ma (a differenza di altri miei coetanei) non mi facevo problemi ad ammettere la mia ignoranza e chiedere spiegazioni, eventualmente chiedendo anche più volte (ero giustificato, essendo quello "diverso", no?).
Cosa c'entra tutto questo con i gdr? Beh, che fondamentalmente essere cresciuto in un ambiente bilingue come "quello che non sa le cose" mi ha insegnato a non preoccuparmi di mostrare la mia ignoranza, e più in genere le mie mancanze, e per ulteriore estensione ormai mi preoccupo poco delle aspettative degli altri sul mio ruolo: quando qualcosa mi piace, non ho paura a dirlo, anche se ci si aspetterebbe altro da un ragazzo di 25 anni (ponies, anyone? :P)
Giulia Cursi:
Si questa è tanta roba per l'articolo!
Ad ogni modo comprendo e condivito totalmente tutto quello che hai scritto Claudia, nel mio caso si aggiungeva anche il classio senso di essere sotto esame da "quelli più esperti", che nei giochi tradizionali non sparisce mai.
Ora mi sento libera di fare quello che mi pare, se rientro in uno stereotipo va bene, se non ci rientro va bene lo stesso. L'importante è che io mi diverta e che gli altri si divertano, tanto solitamente se mi diverto io difficilmente agli altri non succede...
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