Autore Topic: [My Red Goddess] La città prende vita  (Letto 2981 volte)

Daniele Di Rubbo

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[My Red Goddess] La città prende vita
« il: 2019-10-05 10:08:35 »
Un aspetto che non ho trattato nell’actual play del mio primo playtest di My Red Goddess è senz’altro quello relativo al fatto che da nessuna parte nel gioco si dice che occorre stabilire dove e quando la storia è ambientata.

In quella partita abbiamo, di fatto, giocato in una versione fantastica della Los Angeles degli anni Cinquanta (seppure non lo abbiamo mai dichiarato esplicitamente), ma com’è che è uscita quell’idea?

Le autorità relative al mondo nel gioco sono attribuite a lei, ma lui può fare dichiarazioni del mondo, se vuole. In poche parole, l’autorità sul mondo si trova a mezzo cammino, con un predominio dell’autorità di lei rispetto a quella di lui. È come dire che questo, tendenzialmente, è un compito di lei, ma che anche lui può, e dovrebbe, collaborare, nella misura in cui si sente a suo agio a farlo. C’è un grande sconfinamento amichevole su questa autorità.

I luoghi

Nel corso della nostra partita, sono emerse, in ordine, i seguenti luoghi.

La villa dei Darrow

Creata da me (lei) nella scena d’ingaggio. Era del signor Darrow, ma ora che è morto è la casa della vedova, Faith Darrow, la femme fatale. L’abbiamo vista ancora nella prima scena d’investigazione, nella scena del confronto e nella vignetta conclusiva del detective. Non l’abbiamo mai detto esplicitamente, ma mi sono sempre immaginato che fosse in un quartiere per bene.

Il “Blue Palms”

Locale sul lungomare della città, con pianista e cantanti, dove vanno molti giovani artisti e debosciati. L’abbiamo visto nella seconda scena d’investigazione. Qui abbiamo scoperto che la città è sul mare, cosa che prima non avevamo mai detto.

La bisca clandestina del quartiere italiano

Creata da me per bocca del barista del “Blue Palms”, nella seconda scena d’investigazione. Durante quella scena, Michele, per bocca del detective, ha fatto il nome di due famiglie italiane, ed è lì che è venuto fuori che la bisca era di Antenucci. Quindi abbiamo creato assieme una bisca clandestina e uno squallido quartiere italiano. Lo abbiamo visto nella terza scena d’investigazione.

Il motel “Idaho”

Creato nella terza scena d’investigazione, per bocca di Ethan Price. Qui abbiamo citato per la prima volta un «fuori città», una periferia, e il relativo motel, con quel nome, gestito da un nativo americano. Lo abbiamo visto nella quarta scena d’investigazione.

La strada per la villa dei Darrow

L’abbiamo creata e vista nella quinta scena d’investigazione, che di fatto si è svolta quasi tutta su quella strada indefinita, all’interno della macchina del detective. Sebbene non l’abbia detto esplicitamente, l’ho immaginata e l’ho descritta in modo che si capisse che è una di quelle tipiche strade a scorrimento veloce, per raggiungere le varie parti di una città molto grande, come potrebbe essere una Los Angeles, appunto.

La chiesa di san Brendano degli irlandesi

Citata durante la quinta scena d’investigazione, creata in parte da Michele, in parte da me:

Steve: «Conosci la chiesa?».

Taylor: «Quale? Quella di san Brendano? Dove vanno gli irlandesi?».

Non l’abbiamo vista, ma solo citata. Sono quasi sicuro che si trovi nel quartiere storicamente popolato dai migranti di origine irlandese, anche se non l’abbiamo mai detto esplicitamente.

Hotel elegante di Angelucci

Citato nella quinta scena d’investigazione, visto di sfuggita durante la quinta scena d’investigazione e durante l’epilogo (l’ultima parte della scena del confronto). Non l’abbiamo mai detto esplicitamente, ma me lo sono immaginato nella parte bella del quartiere italiano.

Gli anni Cinquanta

Insomma, come potete vedere, ne è uscita un’estetica da Los Angeles immaginaria, non descritta meticolosamente, degli anni Cinquanta. Ok, ma di chi è la colpa?

I miei riferimenti visivi, sono sicuramente stati i romanzi di Raymond Chandler, che ho letto di recente, le graphic novels di Sin City di Frank Miller, che ho letto qualche anno fa, e i due film tratti da quelle graphic novels.

Ok, non è roba anni Cinquanta. Però qui ci ha messo lo zampino Michele. Mentre gli spiegavo la premessa del gioco, lui mi fa: «Ah, molto noir anni Cinquanta!». Evidentemente è stato lì che i nostri cervelli hanno fatto «click» e che ci siamo accordati tacitamente su quel periodo, su quell’estetica. E poi la città è nata da sola.

Conclusione provvisoria

Mi piace particolarmente l’idea che i giocatori si accordino tacitamente su un’ambientazione in parte fatta di stereotipi estetici e in parte d’improvvisazione sul momento. Penso che, per ora, la terrò così, e vedremo se a qualcuno darà dei problemi durante i prossimi playtest.

Mi immagino la mia città come un organismo vivente e avvolto dalle nebbie dell’immaginazione. La sua indefinitezza aiuta a rimanere mobili e scattanti con le idee, a non farsi troppi preconcetti. Da quella nebbia, un quartiere o un’idea possono saltare fuori da un momento all’altro, senza preavviso, alla bisogna.

Ed è così che la nostra città prende vita.

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